[cultura]

Poesia e giustizia.
Il primo canto pisano di Ezra Pound

"I surrender neither the empire nor the temples/ plural/ nor the Constitution nor yet the city of Dioce/ (...) To build the city of Dioce whose terraces are the colours of stars"

Sono questi due versi tratti dal canto LXXIV (primo dei carmi pisani) di Ezra Pound. In essi si condensa il senso politico del carme. Ma determinare il senso politico del carme, significa in pari tempo determinare il significato dell'atto poetico. Poichè la scaturigine del canto è intemporale, stabilire una connessione essenziale tra poesia e politica significa sollevare quest'ultima, dall'orizzonte contingente di ciò che è meramente temporale, alla dimensione metafisica della giustizia.

Ora, proprio in virtù di tale sua dimensione, la giustizia è necessariamante esposta alla contingenza catastrofica della storia. Essa cioè non può sottrarsi al rischio di darsi configurazione nell'unica sfera che abbia a disposizione per mostrarsi operativa ed efficace, la sfera incerta e per principio turbolenta dell'agire politico. Così, la giustizia diventa esigenza: esige che la politica si appelli ad essa come istanza non contingente, e perciò stesso metastorica.

Ma proprio in tal modo, essa mette il suo contenuto di verità a repentaglio, rendendolo disponibile alle pretese della doxa. Dal momento in cui quest'ultima s'impadronisce dello spirito di un'epoca, e pretende di riconoscere in un determinato regimen politico la configurazione adeguata dell'idea, la politica è condotta al suo tracollo necessario. Ma ciò che tracolla non è la giustizia, bensì la pretesa del regimen di incarnarla una volta per tutte sul piano della storia.

D'altra parte, anche questa pretesa è intimamente connessa alla logica dell'idea. Poichè la giustizia non sarebbe tale, se non pretendesse di orientare e ancor più di permeare l'ambito dell'agire umano; se quest'ultimo non fosse necessariamente rivolto alla giustizia, per potersi dare e definire come tale. Di qui, la connessione necessaria tra politica e giustizia; ma di qui, anche, l'impossibilità che siffatta connessione si realizzi effettivamente, dal momento in cui la politica sia determinata, come avviene nell'età moderna, dalla lotta per la conquista del potere su scala mondiale. Nella lotta tra le diverse doxai per il monopolio nella rappresentanza dell'idea, la politica orientata alla giustizia si conclude, con dialettica necessaria, nella sua tragica negazione.

Quando la catastrofe si rivela come il contenuto sostanziale del rapporto tra politica e giustizia, forse solo la parola poetica può adeguatamente esprimere ciò di cui si tratta:

"The enormous tragedy of the dream in the peasent's/ bent schoulders"

La giustizia è come un'erma bifronte: per un verso sollevata oltre la storia, dall'altro può affermarsi come trascendente solo in quanto concretamente operante ed efficace sul piano dell'agire. La concretezza dell'idea, ciò in cui consiste, platonicamente, la sua verità, non sta nel suo intangibile sussistere al di là degli eventi, bensì nel mantenere intatto il suo contenuto di verità, pur nel coinvolgimento e addirittura nella deformazione cui essa va incontro ad opera di essi.

A questa altezza si colloca la scaturigine del canto. Esso sorge da una catastrofe che si è prodotta nel corso della storia, ma come il risultato di un contatto, di una "mescolanza" impossibile tra l'evento e l'idea. Così lo scontro all'origine della enormous tragedy poundiana attinge esso stesso valenza metastorica, rendendo possibile il sorgere del canto.

Ma il canto presuppone il poeta. Il poeta, nel verso, può esprimere la propria epoca come "tragedia", poichè egli stesso ne è stato travolto, poichè ciò che è andato in frantumi è il suo sogno. Il canto si origina da questo coinvolgimento, che presuppone la persistenza del poeta al di là della tragedia. Ciò sembra impossibile, poichè se l'evento è tragico, l'idea di sopravvivenza viene negata. Mantenere la tragicità dell'evento, e in pari tempo ammettere la persistenza del poeta al di là di esso, significa modificare la nozione stessa del sopravvivere.

La sopravvivenza, dopo il compimento della tragedia, si dà come svuotata di sostanza. Essa è sopravvivenza, e come tale persistere di una presenza; ma tale presenza equivale alla proiezione di un'ombra, che non ha più nessun corpo come sua origine. Il poeta sopravvive alla catastrofe, ma ciò che gli resta è soltanto il persistere di una presenza senza vita, è soltanto il suo essere inspiegabilmente presente al di là di essa, "sopra" di essa.

Da questo "sopra", svuotato di vita e di sostanza, sorge il canto. Canto di un dolore tanto più sentito, in quanto dolore puro, senza alcun soggetto che lo senta:

"between Nekuia where are Alcmene and Tyro/ (...) ac ego in harum/ (...) ivi in harum ego ac vidi cadaveres animae (...)"

La visione del poeta non è visione che nasca dall'esterno; l'inferno non è un luogo che egli semplicemente attraversi, osservando e meditando su ciò che in esso avviene. Anch'egli è all'inferno, anch'egli è un semplice "comes miseriae". Ma nel suo condividere la miseria degli altri "comites", egli scopre la radice del suo poetare.

La miseria è sorgente di poesia, in quanto il poeta la riconosce non soltanto come il portato di eventi esterni, bensì come condizione spirituale. Il canto sorge dalla miseria come "nox animae". Solo in quanto è scoperta come esperienza che attiene anzitutto la dimensione dello spirito, la miseria può assurgere a condizione del canto. Ma perchè lo spirito riconosca nella miseria la possibilità del poetare, è necessario che esso riconosca in se stesso l'origine della miseria che ora soffre.

L'origine della miseria è legata al fatto che lo spirito si era orientato alla giustizia. Ma nel suo orientarsi alla giustizia, lo spirito è rimasto impigliato nella doxa. Il poeta ha pensato di poter riconoscere nell'organizzazione corporativa del regimen fascista l'incarnazione storica e concretamente efficace della giustizia. Ora siffatta credenza si svela per ciò che essa era, opinione priva di effettualità, e cioè "sogno" ("dream"). Dal franare del sogno si origina la tragedia; ma nel momento del suo crollo, il sogno si rivela per ciò che esso era da sempre, cioè doxa. Il sogno doveva franare, appunto perchè mero sogno. La "enormous tragedy" non conduce semplicemente alla "nox animae", ma svela che siffatta nox animae era ciò che dominava lo spirito fin dal principio, cioè fin dal momento in cui esso aveva scambiato doxasticamente l'organizzazione corporativa del regimen con l'attuazione concreta dell'idea di giustizia.

Ma nel momento in cui siffatto tracollo appare irrimediabile, appare anche che ciò che tracolla non è la giustizia, nè la mente che aspira all'idea. Ciò che tracolla è piuttosto la doxa, che pretendeva di ridurre la giustizia alla sua misura. La catastrofe consente alla mente di riconoscere la doxa in quanto tale ("dream"), e in pari tempo di ribadire la necessità dell'idea ("I surrenderer (...)/ nor the Constitution nor yet the city of Dioce").

"The city of Dioce" è la città che incarna la giustizia. Essa è dunque la città come idea, l'idea di città. Essa è affiancata all'idea di "Constitution" operante nella rivoluzione americana. In quanto il poeta è rivolto all'idea, non può rinunziare a esprimere l'idea nelle forme politiche che massimamente hanno cercato di donare ad essa effettualità storica. Ma in questo modo, egli riproduce la dialettica tra verità dell'idea e sua espressione nella doxa. "The city of Dioce" è infatti sia la città come idea, sia il regimen che la doxa del poeta ha ritenuto di dover sollevare all'altezza dell'idea. Quando egli sostiene di non voler rinunciare ad essa, sostiene dunque in pari tempo di essere sopravvissuto al tracollo del sogno, di aver riconosciuto il sogno come doxa. Al tempo stesso, però, nell'esprimere poeticamente l'idea egli torna a coprirla con le vesti del sogno appena infranto. Così, l'impossibilità di districare il groviglio tra giustizia come idea e giustizia come doxa attraversa tutto il primo canto pisano.

Come abbiamo visto, ciò avviene proprio perchè la poesia non rinuncia alla verità dell'idea. In virtù di questa verità, il canto esprime la giustizia nel suo "giusto nome" (ChengMing). Ma in tal modo, la poesia incrocia l'orizzonte della bellezza. E' a quest'ultima, infatti, che il canto attribuisce la capacità di scolpire o intagliare "precise definition".

Ma nel momento in cui attinge quest'ultima, la bellezza non può andare disgiunta dalla verità. Solo così può essere definizione, solo così la definizione può essere precisa. Dunque la bellezza è tale solo in quanto dona compiuta espressione all'idea. Nella bellezza si consegue la consapevolezza dell'idea.

Ma proprio perchè non è mera esercitazione formale, la bellezza è difficile ("beauty is difficult"). La difficoltà della bellezza è all'origine della rarità dell'opera d'arte. Nel cantare la bellezza, il poeta canta in pari tempo la sua rarità. E poichè rara è la bellezza, raro e difficile è pure il canto che ad essa dà voce, raro e difficile il poema orientato al "giusto nome" (ChengMing).

Com'è raro e difficile, altrettanto il canto è fragile e precario. La sua fragilità consiste nel suo presupporre la possibilità del poeta; la sua precarietà, nel fatto che questa possibilità è negata dall'essersi compiuta della "enormous tragedy": "Consummatum est".

Ad essa il poeta sopravvive, ma sopravvive come un'ombra. L'ombra designa un'esistenza svuotata di sostanza. Lo svuotamento di sostanza implica una perdita. Ciò che è perduto non è una cosa qualunque, bensì il Sè che costituiva l'identità del poeta come soggetto. Resta l'ombra, ma non c'è più alcun soggetto che la proietti. Nell'ombra scompare ogni possibilità di "precise definition"; nell'ombra sprofonda la luminosità che era propria della bellezza.

Alla "magna nox animae" in stato di prigionia, corrisponde dunque l'eclissi del bello. Per l'anima divenuta ombra, tutto ciò che attorno ad essa si svolge si svolge nell'ombra. Nessuna clara ac distincta perceptio, ma solo echi confusi e frammentari di qualcosa che avviene, o non avviene, nell'indistinzione di una vita che non è più vita: affollarsi di eventi in cui non succede nulla, o succede il nulla.

Ciò si manifesta nella struttura formale del canto. All'espressione della soggettività poetante, subentra qui la registrazione anonima di episodi, parole, ricordi senza soggetto e senza oggetto; alla successione o alla contemporaneità, al flusso di coscienza o alla fissazione lirica dell'interiorità, si sostituiscono il montaggio di frammenti e la loro iterazione in contesti nè diversi nè uguali, bensì variati di volta in volta.

Ma proprio in questa registrazione dall'apparenza anonima, in questo montaggio apparentemente casuale, si può riconoscere la persistenza del poeta: il quale non rappresenta più, nel suo canto, il "delight" conseguente alla pienezza della "inluminatio", ma si fa cassa di risonanza per ciò che resta dopo il naufragio del "dream". Nessun ordine dunque, nè logico nè cronologico; nessun senso nè disegno; piuttosto, la persistenza di una causa, qualla della politica come verità, della giustizia come idea, del canto come rivendicazione sonora ("ligur''') di compassione e dignità: "and the greatest is charity".

La condizione della prigionia, che nega la giustizia, impone con tanta maggiore necessità di volgere il canto all'idea. La prigionia è condizione di schiavitù, negazione di "charity" e di "humaneness". E' la violazione della giustizia, attraverso cui la realtà intende sbarazzarsi dell'idea. Ma l'idea non viene toccata dalla realtà. Quanto maggiore è la spietatezza con cui il potere del vincitore calpesta la giustizia, quanto più conseguente il dispositivo che intende annullare l'effettualità dell'idea, tanto più quest'ultima appare irraggiungibile alla presa del potere, tanto più impotente appare l'organizzazione della prigionia rispetto alla cattura e soppressione dell'idea. Il campo di concentramento è inferno, regno dei morti, è oscurità e notte dell'anima. Ma nella distruzione della doxa, con cui si era identificata la giustizia, l'idea trova rifugio nello spirito, persiste "now indestructable in the mind".

Così al canto, dalla prigionia, è imposta la definizione della giustizia. Ma la definizione pertiene all'idea, e l'idea ignora il tempo. Essa è coestensiva alla totalità dei tempi, per essa tutto è simultaneo. Il canto volto alla giustizia può dunque incorporare, alla luce dell'idea, la totalità della storia. Quest'ultima, però, non si dà come svolgimento, teleologia, divenire, bensì come repertorio di materiali che scalzano il predominio della cronologia, e si rivelano, nel loro significato essenziale, come coeterni all'idea.

Così l'idea permette di rendere giustizia a chi è disceso agli inferi, per rimanervi. Idea e prigionia convergono nella direzione di una medesima procedura, poichè per entrambe la storia è finzione, il tempo apparenza, il divenire doxa. Ciò che per la doxa diviene, è per l'idea frammento immoto, congelato nella sua immodificabile unicità, e perciò indefinitamente utilizzabile all'interno delle operazioni di montaggio istituite dalla mente. Ma lo stesso vale per il canto di chi è prigioniero della notte. All'anima priva di luce, passato presente e futuro si coagulano nell'orizzonte indistinto dell'ombra. Nella sua confusione, spezzoni di esperienze, ricordi, sensazioni si affastellano senz'ordine e senza meta, senza origine e senza processo. Il canto scopre così la contiguità di casualità e idea, sofferenza e redenzione, contingenza e giustizia: "with justice shall be redeemed".

Ecco perchè la giustizia è sempre attuale, contemporanea a tutti i tempi e a tutti i luoghi, e in pari tempo sempre inattuale, incongruente a tutti i tempi e a tutti i luoghi. Ecco perchè il canto, se vuole restare all'altezza della giustizia, deve operare sugli spezzoni che, nell'oscurità dalla notte, riemergono inspiegabilmente alla memoria: mentre la mente, sprofondata nella condizione senza radice e senza giustizia della prigionia, li potrà riconoscere come coeterni all'idea.

La sequenza degli imperatori cinesi Yao-Shun-Yu è il primo raggruppamento utile per la definizione della giustizia. Abbiamo detto sequenza, ma sarebbe stato più giusto parlare di costellazione. A ciascuno di questi corrisponde infatti un "attributo" dell'idea. Nell'attributo, l'idea si trova intera, ma nell'interezza di una determinazione particolare. Perciò Yao-Shun-Yu non scompongono l'idea nel tempo, e neppure nell'intelletto. Piuttosto, l'idea è tutta espressa in ciascuno di essi. Tutta l'idea è Yao, tutta l'idea è Shun, tutta l'idea è Yu. Nessuna divisione, nè analitica nè temporale; nessun processo di concretizzazione, sviluppo, svolgimento. L'idea, per così dire, sta intemporalmente e integralmente in Yao, in Shun, in Yu.

Tuttavia, poichè persiste "undestructable in the mind", l'idea è dall'intelletto infinitamente determinabile. L'intelletto coglie l'idea nell'infinità dei suoi attributi attuali. Questi ultimi, in quanto appartengono all'idea, non sono arbitrari ma necessari; e nella misura in cui sono necessari, vengono espressi nel canto del poeta. Così, l'infinita determinabilità dell'idea per l'intelletto coincide con la sua assoluta determinazione in atto. Per l'assoluta determinazione dell'idea, il canto del poeta può aspirare all'espressione della sua "precise definition", incrociando così l'orizzonte della bellezza.

Il carme LXXIV introduce la costellazione YAO-SHUN-YU con i versi seguenti:

in tensile HSIEN

in the light of light is the 'virtù'

"sunt lumina" said Erigena Scotus

as of Shun on Mt Taishan

and in the hall of the forebears

as from the beginning of wonders

the paraclete that was present in Yao, the precision

in Shun the compassionate

in Yu the guider of waters

L'unità di Yao-Shun-Yu viene determinata come paracleto. Il paracleto è presente fin dall'inizio dei tempi, come la luce, che costituisce la sostanza di tutte le cose. Le cose non sono semplici dati, non sono semplici fatti, bensì sono meraviglie. La meraviglia indica lo stupore di ciò che appare per la prima volta. Ma tutto appare per la prima volta, se dalla mente viene colto in forma originaria. La forma originaria di ciò che appare è la luce. Le cose, come folgoranti apparizioni della luce, sono meraviglie. La meraviglia non è dunque soltanto lo stupore gioioso di chi coglie l'irrompere, il manifestarsi della luce; la meraviglia è la condizione originaria dell'essere, delle cose in quanto "lumina".

Il paracleto esprime la giustizia in funzione della verità; ma mostra la verità come inscindibile dalla giustizia:

"in principio verbum/ paraclete or the verbum perfectum: sinceritas".

La sincerità è misura dell'essere, poichè l'essere è verbo. Ma l'essere è verbo, perchè l'essere è luce: manifestazione, rivelazione, espressione di sè. Perciò l'essere è originariamente verbo, perciò questo verbo non può mentire. Se mentisse, se potesse mentire, allora la luce potrebbe anche non manifestarsi: ma se non si manifestasse non sarebbe, nè sarebbe il verbo, nè sarebbero le cose che lo esprimono; ciò che sarebbe, sarebbe niente.

Ma in quanto verbo, l'essere viene cantato nel poema, nel carme del poeta. Dal paracleto come sincerità si origina il canto. Il canto è possibile perchè l'essere è originariamente parola, e questa parola è sincera. Solo la sincerità dell'essere rende possibile la bellezza; solo la sincerità dell'essere fa sì che il poeta possa intagliare nel canto il contorno della "precise definition".

In quanto luce che si manifesta, l'essere è "virtù". Virtù è potenza che si dispiega, principio che si rivela, origine che dà vita. Perciò, virtù qui non indica ancora un modo di essere da parte dell'uomo, bensì il modo in cui è l'essere stesso.

La giustizia è possibile solo in quanto l'uomo corrisponde alla virtù; ma la virtù dell'essere è il paracleto come sincerità, come dono alle cose della loro natura. Giustizia è conformità all'essere, corrispondenza alla sincerità come principio dell'essere. Questa corrispondenza è presente fin dall'inizio in Yao-Shun-Yu. Perciò in essi è presente l'idea, perciò di essi viene a dire il canto.

In Yao, il paracleto appare come "precision". Già per questo vi è una connessione essenziale fra Yao e il canto. Ma la precisione di Yao, pur essendo essenziale al canto, non si manifesta ancora in forma di canto, bensì come precisione nel dire e nel nominare. Anzi, nel carme LIII, Yao appare in relazione con l'alternarsi delle stagioni, col moto circolare del cielo e degli astri. La precisione emerge in corrispondenza col grande ordine della natura, con l'universo come cosmo. Il movimento del cielo è reale, ma come misura che periodicamente ritorna. Questo è il movimento che viene conosciuto da Yao, con questa misura concorda la mente di Yao:

YAO like the sun and rain

saw what star is at solstice

saw what star marks mid summer

La sincerità del paracleto si manifesta in Yao come concordanza col cosmo. La parola di Yao non può dunque essere una parola qualunque, bensì dev'essere linguaggio in cui quella sincerità risuona, in cui la concordanza si rivela come precisione. Perciò, all'esattezza della misura con la quale Yao coglie il movimento degli astri, deve corrispondere l'esattezza della parola, che a partire da quella concordanza ne mostra l'armonia, ne esprime la cadenza:

lord of his work and master of utterance

who turneth his word in its season and shapes it Yao

Così il canto pisano determina la precisione di Yao in relazione al linguaggio. Ma il linguaggio non è mezzo di espressione estrinseca, aggiuntiva. Se il paracleto è verbo, il linguaggio è ciò in cui il paracleto si manifesta in forma eminente. La sincerità che nel linguaggio assume forma di parola non è dunque espressione di un atto ad essa estraneo, indipendente. La precisione nel linguaggio è essa stessa atto, essa stessa opera. Perciò il linguaggio non è qualcosa di istituito una volta per tutte. Al contrario, esso sorge soltanto se la parola viene pronunciata al momento opportuno, se essa viene rivolta nella sua giusta stagione. Così il linguaggio diventa dire, e il dire opera. Solo chi è maestro nell'arte del dire può fare del linguaggio un'opera, può fare risuonare nel linguaggio la concordanza che governa il cosmo.

La precisione nel dire è azione in cui si esprime la sincerità del paracleto. Essa è dunque essenziale affinchè l'essere si riveli come luce, affinchè la luce si manifesti come verbo. Ma la luce può manifestarsi come verbo solo se le cose, nel linguaggio, vengono chiamate con il giusto nome. Le cose stesse, infatti, sono "lumina"; non attribuire ad esse il giusto nome, significherebbe infrangere l'armonia della concordanza, oscurare l'essere. Dare alle cose il loro giusto nome, dire le cose secondo la loro natura è perciò la condizione prima del linguaggio: CHEN MING.

Così, precisione nel dire equivale anzitutto a sincerità e precisione nel nominare. Yao è maestro nel dire poichè è maestro nel nominare, inteso non come atto di arbitraria sovranità del soggetto sulle cose, ma come attribuzione e dono alle cose del loro "giusto nome".

Per questo, Yao compie opera di giustizia. Nel dire le cose così come sono, nel pronunciare la parola al momento opportuno, egli corrisponde alla sincerità dell'essere, permette ad esso di manifestarsi nella sua natura di verbo e di luce. Con ciò, Yao testimonia che non è possibile compiere opera di giustizia al di fuori della verità, al di fuori della sincerità con cui la luce genera le cose, con cui l'essere si fa verbo.

La precisione che Yao raggiunge nel dire fa sì che essa compenetri tutto il suo agire. Se il linguaggio è atto, significa che non si può essere precisi nel linguaggio se non si è raggiunta la saggezza nella totalità del proprio essere e del proprio fare. In Yao, tale saggezza non si manifesta soltanto nella maniera in cui egli governa, ma nella maniera in cui sceglie chi deve succedergli nel governare. Qui la precisione di Yao rimanda oltre Yao, e in questo suo riamandare oltre di sè si attua come decisione:

Yao chose Shun to longevity

La scelta di Shun è il modo in cui la precisione di Yao si compie al di là di Yao. Ma l'al di là di Yao non indica il superamento dialettico di Yao. Yao rimanda al di là di sè, eppure la sua "precision" resta intangibile, perchè è idea. L'idea è tutta nella "precision" di Yao, perciò nel momento in cui sceglie Shun e oltrepassa se stesso, egli in pari tempo si afferma massimamente, non come altro, ma come se stesso. La decisione di Yao non può essere compresa dialetticamente.

Gaetano Rametta

(Fine prima parte - continua)