[Politica]

Lo storico Emilio Franzina sulla Lega di ieri e quella oggi

La lunga storia della Lega

L'escalation che ha portato Bossi ai gesti "estremi" del settembre 1996 non nasce come irruzione improvvisa dell'irrazionale nel panorama della lotta politica italiana ma è il frutto di una storia che ha radici assi lontane

E ra un antico vanto del vecchio Pci quello di considerarsi un partito dalla lunga storia.
Veniamo da lontano, amavano affermare dirigenti e militanti alludendo alle molte lotte sostenute nel corso del novecento. Il secolo ventesimo, invece, si sta chiudendo con altri soggetti politici in primo piano. La Lega, in particolare, sarebbe a detta di molti il principale fra questi soggetti. Ilvo Diamanti, che ne è considerato il massimo esperto, ha anzi coniato per lei la definizione di nuovo imprenditore politico in un mercato ridisegnato e rivoluzionato dal crollo dell'URSS dopo il 1989.

Seguendo le cronologie dei sociologi e dei politologi, che fanno risalire quasi tutti al 1983, e cioè al suo debutto elettorale, il fenomeno leghista, non ci si accorge però di quanto forse più "anziano" sia nel suo insieme un movimento scaturito nel Nord del paese dalle viscere del sistema di potere doroteo. Se è vero infatti che nel 1983 si assiste all'"insorgenza" della Liga Veneta, la "madre di tutte le Leghe", sotto un profilo ancora abbastanza confuso e indistinto, sembra altrettanto vero che tale incipit corrisponda solo a una cronologia elettorale. In realtà da almeno cinque anni covavano, in varie zone soprattutto del Veneto, i fermenti di un atteggiamento mentale e di una predisposizione politica che non erano neanche scollegati del tutto dalla storia più remota della regione.

L'imprevisto 4% raccolto alle urne nel 1983 fu salutato da varie parti come il portato di una specie di residuo preindustriale, quando in realtà continuava con tratti di visibilità ora maggiore un percorso compiuto e poi di tempo in tempo interrotto da gruppi sociali e da persone che l'incombente crisi del sistema Italia avrebbe poi sospinto ai margini e fuori dal suo seno proprio quando intensi processi di riorganizzazione industriale , dinamici e innovativi nei loro esiti, stavano segnando l'ingresso di nuove aree della regione o ,se si preferisce, del "Lombardo Veneto", nella moderna "economia mondo". Le zone di maggior diffusione della media e piccola impresa, dopo esserlo già state sotto un profilo culturale da molti decenni, si apprestavano così a diventare appunto soggetti primari, da un punto di vista produttivo, della forza d i un modello tenuto a battesimo più di cent'anni avanti da tutt'altre forze e da tutt'altri personaggi. La storia del Nord Est, come venne poi di moda chiamarlo, e quella della Lombardia "veneta", con le sue valli bresciane e bergamasche, aveva dato un contributo alla genesi di una realtà che nondimeno appariva, e sarebbe continuata ad apparire sempre di più , "nuova" ed anche eversiva.

I "luoghi delle Leghe", come sempre Diamanti li inquadrò fra i primi, non celavano certo le proprie origini e comunque, fossero esse remote o più vicine, nel senso del doroteismo frustrato dei supporter di Bisaglia, uscito di scena per morte innaturale anzitempo, testimoniavano di un malessere diffusosi ormai in gran parte delle popolazioni. Si potrebbe obiettare che lo stesso malessere, mentre la Liga Veneta cedeva man mano il posto all'astro nascente di Umberto Bossi, demiurgo e futuro protagonista di ogni iniziativa del movimento, affliggeva l'Italia nel suo complesso: la reazione contro le impalcature ei lacci di una burocrazia (non solo statale) soffocante, la reazione contro l'incapacità delle classi tradizionali a gestire, in tempi di penuria, lo slancio "creativo" di nuovi ceti produttivi e le paure indotte da trasformazioni quasi epocali ormai in atto sospingevano i più verso l'approdo che a far data dal 1992 si sarebbe materializzato in crisi e in collasso di tutto un mondo.

La Lega, ora compiutamente Lega Nord, ebbe il merito, dai suoi leader poi sempre rivendicato, di affrettare e addirittura di consentire un tale tracollo e a quella data era già carica d'anni e di storia ma non aveva posto mano con determinazione al recupero delle valenze simboliche e dei richiami mitici che avrebbero condotto allo sbocco successivo della coreografia bossiana nell'improbabile revival medievale e misticheggiante di questi mesi. Di mezzo, io credo, si erano già messe, oltre alle difese "interne" del sistema individuabili nella vitalità del resto non imprevedibile delle componenti ex comuniste ed ex democristiane di governo, altre novità difficili da pronosticare appena qualche anno addietro e in particolare la nascita per impulso di Berlusconi di un partito azienda massmediatico capace di convogliare una parte del consenso moderato anche del Nord nonché di rimettere in circolo, sdoganandole, come disse poi Scalfari, gli uomini e i voti dell'estrema destra neofascista. In competizione con tutti costoro , come testimonia la storia degli ultimi quattro anni, la Lega finì per trovarsi inevitabilmente da sola ancorché, socialmente ed elettoralmente, nient'affatto isolata.

L'escalation che ha portato quindi Bossi e i suoi "fedeli" ai gesti estremi del settembre 1996 si spiega e non nasce come irruzione improvvisa dell'irrazionale nel panorama già scomposto e rivoltato della lotta politica in Italia. Se questi sono però gli antefatti occorre concentrarsi adesso sull'analisi del presente e sulle prospettive di un futuro prossimo che pare caricarsi di oscuri presagi solo che si abbia in mente la parabola ex jugoslava. Bossi e la Lega infatti hanno usufruito anche di numerosi vantaggi accordati loro dai più diversi interlocutori politici e istituzionali. Nella rincorsa di un federalismo a mio giudizio difficile da applicare al caso italiano, dove sarebbe più serio parlare di ampliamento radicale delle autonomie locali possibilmente con la messa in mora di quei duplicati di centralismo che son le regioni, siamo arrivati, come si sa, agli spettri e più che agli spettri della secessione. Ma con tutto che la sua richiesta scaturisca, fra i leghisti e per volontà di Bossi, da un inevitabile meccanismo interno,c'è da dire che non poche responsabilità gravano sui governanti e sui competitori politici della Lega.

E il fatto si spiega facilmente perché la logica del maggioritario imperfetto e l'autoisolamento dei leghisti hanno consentito al centro-sinistra di vincere le elezioni e di governare, ma hanno anche costretto le destre, compresa quella berlusconiana, a mordere il freno nella consapevolezza e quasi nella speranza che esista una omologia sociale dell'elettorato leghista con le posizioni del moderatismo tradizionale da cui si potrebbe presto o tardi trarre profitto.

Alla Lega, in altre parole, è stato lasciato aperto un campo sterminato come quello dell'immaginario e sul mercato dei valori, oggi in ribasso soprattutto fra le sinistre, il suo micronazionalismo ha cominciato a confliggere con i sensi di identità e di appartenenza nazionale bene o male diffusi persino fra molti militanti ex comunisti. Ha stupito e deluso ,costoro, l'incapacità dei vertici dell'Ulivo e del Pds d'interpretare una voglia di reazione alle provocazioni mirate della Lega sul piano appunto del patriottismo. Il 15 settembre, in effetti, di fronte ai riti pagani di un Bossi che aveva già vinto la sua partita spettacolare sui media (lo hanno ammesso un po' tutti gli osservatori) essi si sono sentiti e ritrovati orfani di un'idea forte e condivisa che si poteva ben basare sul senso civico e sul rispetto del dettato costituzionale. La pretesa dei leghisti d'identificare in toto, come "sistema" irriformabile, lo Stato e il governo ,i partiti e le istituzioni ha fatto breccia nel vuoto culturale ed emotivo del buonismo eretto per semplice paura a filosofia di cabotaggio e al massimo ha riconsegnato all'estrema destra già fascista, appunto come da copione, la prerogativa dell'amor patrio e dello sventolìo di bandiere tricolori.

Poco conta che quelle leghiste dalla cerimonia ridicola dell'ampolla sul Monviso alle messe in scena assai poco affollate lungo il Po ai comizi finali di Chioggia e di Venezia abbiano a loro volta garrito assai alla buona e , per fortuna, con scarse conseguenze d'ordine pubblico. La ferita inferta al patto fra italiani da una chimera che per metà non esiste e che per un'altra metà invece esiste eccome c'è stata ed è stata, checché se ne pensi e se ne scriva minimizzando, abbastanza profonda. Si potrà certo rimarginare con i dovuti medicamenti, ma bisognerà soffermarsi a riflettere non solo su Bossi e sui suo irituali pagani magari irridendoli a buon mercato, bensì pure sull'humus generale che gli ha consentito(o lo ha costretto a ?) di spingersi sino al punto di apparente non ritorno al quale è arrivato, in catamarano, a Venezia. Un osservatorio interessante e poco considerato sin qui è a mio avviso quello costituito dai media locali della Lombardia e del Triveneto con particolare riguardo per il "Giornale" d i Feltri e per il "Gazzettino" durante la gestione di Giorgio Lago. Non traggano in inganno le opzioni dichiarate dei due fogli: il forcaiolismo del primo e le ambiguità del secondo aiutano a capire molto di più dei sondaggi e delle interviste ai militanti leghisti di cui in anticipo hanno condensato gli umori e orientato le reazioni. Non a caso Giorgio Lago fa oggi parte del gruppo anfibio, al quale risultano iscritti tanti personaggi di riguardo da Ferdinando Camon su su fino a Massimo Cacciari, il cui fiuto politico o piùs emplicemente la cui sensibilità instintiva e "stregonesca" agiscono e congiurano insieme a radicareil senso di una rabbia condivisa (contro i burocratismi, contro i lacci e lacciuoli, contro i vertici e i poteri centrali, ma anche contro "Roma" con quel che segue).

Il deficit culturale dei leghisti, evidente nel "lieder maximo", non consente loro di elaborare linguaggi e messaggi così articolati come un domani gli storici si accorgeranno esservi stati, anche fra il 1992 e il 1996, sulle pagine di certi giornali e nelle tribune televisive locali di mezzo Nord, ma è pur vero che il risentimento generalizzato verso "Roma" non può esprimere solo un'ovvia carica di antistatalismo liberista sta . Esso mette a nudo i limiti, che nessuno dovrebbe più nascondersi ,di un centralismo che non è legittimato dal ruolo della capitale dimezzata. Roma non è né Parigi né Londra e oltre a non essere stata mai "capitale morale" (perché in Italia ve ne sono semmai cento), non costituisce un modello per nessuno: la sua ragion d'essere sono le cosche di potere e questo ai seguaci di Bossi basta e avanza.

Non basterebbe a noi ed anzi spiace che per l'occasione del Monviso e di Venezia, la tre giorni eversiva del senatur non si sia imbattuto nemmeno in un barlume di risposta istituzionale adeguata.

L'Italia è già il paese di tangentopoli dove passate in giudicato son assai poche sentenze e pochissimi i rei incarcerati, è il paese dove si evade di più (e i leghisti ben lo sanno) e dove non si rispettano in media le leggi: ma che lo Stato, nelle figure del governo in carica che più di tutti dovrebbe tutelarne i diritti e le prerogative, non sia riuscito a scorgere nelle iniziative di Bossi un fatto penalmente perseguibile inquieta. Non così si reagì alle Brigate Rosse e al terrorismo di quindici, vent'anni addietro. I due pesi e le due misure, però, hanno, come si è detto, una loro spiegazione. Ma è una spiegazione che non giustifica e non mette al riparo dai pericoli anche più gravi per l'avvenire.

Emilio Franzina