NARRATIVA DAL MARGINE. Fabio Bozzato, L'acqua che cade,
con una nota di Paolo Cacciari, La Fattoria, Padova, 1996, pp.
100, L. 10.000
I cinque racconti che il ventiseienne veneto Fabio Bozzato pubblica
in un volumetto che porta il titolo del primo sono scritti in
una lingua mossa e rotta, tondelliana senza maniera e comunque
non solo tondelliana, anche un po' testoriana (qua e là
compare il dialetto), e che comunque, eventuali modelli a parte,
sta benissimo in piedi da sola. Sono storie che si potrebbero
dire "dal margine" (e questo sottolinea abbondantemente
nella postfazione Paolo Cacciari, fratello del più noto
Massimo e per anni consigliere comunale a Venezia), ma il loro
interesse non è solo quello documentale. Bozzato sembra
avere qualità di vero scrittore, e lo dimostra il diverso
trattamento stilistico (ma la voce è sempre riconoscibile)
che assegna ad ogni racconto. Riassumerli è difficile,
perché sono racconti dove abbonda il non-detto, l'alluso,
il girare attorno all'impossibile-a-dirsi. Il primo, "L'acqua
che cade dall'alto", forse anche il più compiuto,
è tutto qui: Davide passeggia con il suo ragazzo Tommaso
(insieme, si intuisce, fanno fumetti o qualcosa del genere), incontra
la sorella Anna più vista da anni; stanno insieme qualche
ora, confrontano le proprie vite, parlano della mamma e dell'altra
sorella, Dora, anch'essa più vista da anni. Alla fine Davide
decide di andare a trovare Dora, e forse anche la mamma; Tommaso
lo accompagna alla stazione dei treni. Non c'è molto di
propriamente narrativo, ma il racconto si tien su per lo
spostarsi continuo tra crudezza e malinconia: "I tetti sono
tutti uguali, come al solito. La terra sembra sporca e ingorda,
come al solito. E l'acqua che cade dall'alto lava i rumori, con
la sua filastrocca ruvida. Un rivolo scivola da una sporgenza
della grondaia, piscia giù i pensieri, che è il
suo lavoro. E i balconi sono chiusi ovunque, viapiavemaledetta.
E la pioggia continua a battere figliadicane batte. E i cani la
guardano stralunati immobili attenti: forse loro sì la
capiscono" (p. 10). "Tommi e io stiamo raggomitolati
sul divano. Sai, eravamo piccoli un metro o giù di là,
gli racconto. Il giardino. Che bel giardino avevamo. Mamma ci
osservava. Non c'era nulla di più importante davanti a
sé" (p. 23). E l'insistenza sull'immagine dell'acqua
che cade, l'acqua che cade ovunque, anche ("dal basso",
p. 15) nell'ascensore, l'acqua che d'inverno si "trasforma
in lana" (p. 25), ci dà un grande senso di precarietà,
di esposizione al male, di abbandono nel senso che Tondelli
dava a questa parola ("Fenomenologia dell'abbandono",
in L'abbandono, Bompiani 1993, pp. 28-33) . Poi sono belle,
nel libretto di Bozzato, certe pagine dove non si capisce più
se il regime sia realistico o fantastico: pagine allucinate, dove
la realtà è reale e tuttavia si deforma e muta.
Ad esempio, dal racconto "Rumore di vento e di tamburi":
"Sbottonò i jeans blu, che erano blu come i suoi.
Con le mani accarezzò il petto di Pietro, lo prese per
la vita, inarcandolo leggermente. Lo passò tutto come si
accarezza un airone. Poi le portò giù verso l'inguine,
sentì i muscoli contratti delle cosce, arrivò alle
geometrie conosciute delle natiche. Prese in bocca il sesso mezzoeretto,
che divenne sempre più duro, sentendolo entrare in gola
e con la lingua ne accudì la carne. Pietro teneva la testa
indietro, mostrando il collo largo e le vene grosse gonfiarsi,
la bocca un po' aperta e le mani di Lulu che scendevano, sottolacamicia
sopralapelle. Lulu gli regalava pioggia, delicatamente. E dentro
gli occhi chiusi, Pietro vedeva bulloni e coriandoli d'acqua scendere
e stellefilanti che assomigliavano tanto ai capelli di Lulu. Quando
arrivò vicino alle cascate enormi e prepotenti, dove le
grida del bigbang escono da dentro, quando le sue mani che stringevano
la testa dell'altro si lasciarono scivolare via, Lulu sollevò
la testa e dalle labbra uscì solo una rosa al posto del
suo sesso. Una rosa colma di rugiada" (pp. 43-44). Di passaggio
notiamo l'uso forte che Bozzato fa dei verbi inarcare (transitivo!),
passare, sentire, accudire: scelte da vero scrittore. (gm)
L'acqua che cade è
pubblicato dalla cooperativa sociale La Fattoria (casella postale
435 Padova centro, tel. 049-8712541), nata nel 1984, come dice
una nota in coda al libro, "con lo scopo di dar voce alla
marginalità giovanile, tossicodipendente e non, attraverso
un'attività produttiva e di servizi con l'attuazione di
percorsi didattici di formazione e di lavoro. Come Diogene con
la lanterna alla ricerca dell'uomo, così La Fattoria è
riuscita a trovare occupazione e lavoro sviluppando, nel contempo,
momenti di divertimento e di fantasia, musica, poesia, teatro.
Si è guardata dentro e intorno e ha visto che ha tante
esperienze da raccontare: così è nata una iniziativa
editoriale autogestita per raccogliere testimonianze e racconti
minimi finora dimenticati nel cassetto." Oltre a L'acqua
che cade, La Fattoria ha finora pubblicato due volumi di Carlo
Chiovato: Diario nero e In nome del figlio; prossimamente
uscirà Il silenzio è blu di Elena Cardillo.
NARRATIVA ITALIANA. Marco Lodoli, Il vento, Einaudi,
pp. 125, L. 20.000
Il nuovo romanzo di Marco Lodoli, Il vento (che ha una
bellissima copertina, di Antonio Viespoli, voluta e commissionata
da Lodoli stesso) è un oggetto difficile da affrontare.
Da un lato si può dire: è un romanzo del tutto conforme
al Lodoli maniera Einaudi: è gradevolissimo da leggere,
probabilmente, per chi non ha letto altro di Lodoli; ed è
irritante invece, proprio a causa del sovraccarico di maniera,
per chi Lodoli l'abbia letto e seguito dall'inizio. Fin dal ritratto
del quasi-protagonista, Luca: "Luca ha la camicia bianca
picchiettata dalle gocce, poche mille lire nel taschino, in bocca
una sigaretta bagnata che non tira, pantaloni di cotone fradici
sulle ginocchia, mocassini senza tacco, un orecchino che fa infezione"
(p. 3). Teoricamente è una descrizione efficace, visiva
e nervosa; all'atto pratico è un insieme di particolari
emotivamente forzati che si ritrovano tali e quali, o talmente
e qualmente trattati, in tutta la galleria di personaggi della
Roma periferica e piccoloborghese o sottopiccoloborghese che Lodoli
ha allestita dai racconti di Grande Raccordo (Bompiani,
1989) in qua. In sostanza, la voglia di saltar le pagine viene,
eccóme. Tuttavia, la storia è (come al solito) così
strana e curiosa che il libro non si può piantare lì.
Allora la storia è questa: Luca raccatta per la strada
quella che crede sia una prostituta inseguita dai clienti (o dai
papponi) e se la porta a casa; a casa scopre di aver raccattato
un essere d'altro mondo, un marziano (ma viene dalla Luna,
si scoprirà), abbastanza simile a un essere umano, ma pallido
e glabro, senza capelli in testa e con uno specchietto tra le
gambe al posto del sesso. Il marziano è stato ferito dagli
inseguitori, perde sangue (un liquido giallo...), Luca non sa
come fare per salvarlo. Ricorre al padre, alla domestica del padre,
all'ex amico ed ex primo della classe Giancarlo (ora si fa chiamare
Carlos), alla falsa dottoressa Bambi, eccetera eccetera: dopo
poche pagine attorno al marziano morente si aggira e strèpita
il consueto grande circo invalido di tutti gli ultimi romanzi
di Lodoli; nessuno sa che cosa fare, provano a dare al marziano
l'aspirina e gli omogeneizzati, lo disinfettano... A un certo
punto Carlos dice: "Questa storia tutta scombinata mi ricorda
i romanzi di Marco Lodoli. Al bar ne ho letti un paio, sono storie
così, che zoppicano via. Una volta ho letto una sua intervista,
le solite vaghezze letterarie sulla vita e sulla morte, roba senza
né capo né coda" (pp. 74-75). E allora tutti
alla ricerca di Marco Lodoli: sull'elenco del telefono ce n'è
uno, ma non è lui, è uno zincografo che non ne può
più di essere scambiato per lo scrittore, quel "maledetto
che non ha l'indirizzo e il numero di telefono sull'elenco"
(p. 78). Lo zincografo non sa il numero di telefono del Marco
Lodoli scrittore, ma l'indirizzo sì: via Achille Loria
7 (nota: è proprio quello giusto). Allora Luca va
a casa di Lodoli (che ovviamente, essendo l'autore, parla in prima
persona) e, come un Giobbe, l'accusa: "Io sto vivendo dentro
al suo nuovo romanzo, non è vero? E anche mio padre, l'Emilia,
Zeta (il cane), Carlos, Bambi, sono tutti personaggi sputati giù
da lei in un mondo inventato, solo per farli penare, è
così? Sono come schiavi al remo, eh? Lei li pungola, li
frusta, li spreme soltanto per far navigare la sua vanitosa barchetta
di carta... E soprattutto, signor Lodoli, per la sua miserevole
superbia d'artista, per un capriccio da quattro soldi, lei sta
facendo schiattare il mio marziano..." (p. 84). La difesa
di Lodoli-personaggio è debole: "Caro Luca, credi
che sia in mio potere abolire la morte? Io la subisco e la maledico
come ogni essere dell'universo. Posso solo arginarla nella mente
per un poco, stordirla con una storia che confonda, sviarla su
una pista falsa... fin quando non si accorgerà del trucco
e mi tornerà addosso: ma forse sarà più stanca"
(p. 86). Poi tutti insieme (salto un po' di avventure) Luca e
Lodoli-personaggio e il marziano e gli altri si sbandano per Roma,
sostengono dialoghi folli, imbarcano una ragazzona di nome Marta,
decidono di andare a divertirsi al dancing, e finalmente
si ritrovano in un campo di zingari; che però improvvisamente,
scappano, perché "c'è della morte nel vento"
(p. 113). Allora Marta (che, s'intuisce verso la fine, è
la Morte o qualcosa del genere) dice: "Bisognerebbe domandare
al re del mondo. E' lui che decide chi va e chi viene, che aggiusta
e rompe e fa le stagioni piovose o torride, è lui che decide
le domeniche e i lunedì, più o meno, sì."
(p. 115). E chi è il re del mondo? E' "un ragazzo
con una tanica in mano" che cammina lungo la Salaria alla
ricerca di un benzinaio (p. 116). E la sentenza del re del mondo
è questa: "Qualcuno deve morire, se non è il
marziano sia un altro." (p. 120). Il gruppo esita, si rompe.
Poi si fa avanti Zeta, il cane di Luca, "ossuto cane di quindici
anni e rotti" (p. 121). Marta prende il cane e si allontana,
mentre tutti inutilmente la prendono a sassate. E il marziano
"s'alza in piedi, stira braccia e gambe come uscendo da un
letto di piume, sbadiglia, libera un peto squillante" (p.
123).
Vale la pena di rileggere un brano dal primo libro di Marco Lodoli,
il romanzo Diario di un millennio che fugge (Theoria, 1986):
"Troppe vite ci vorranno ancora per farne nessuna. Troppe
speranze, memorie, delusioni, attese, lussurie, angosce, volontà,
dovranno ancora intrecciare le loro spine e sempre più
debolmente sanguinare, affinché dal pallido cespuglio emerga
la fiamma di un uomo nuovo, o forse l'ultimo degli antichi, senza
un passato né un futuro cui badare, puro presente attonito...
Sì, molti uomini e molte donne saranno ancora necessari,
ma già noi stiamo preparando l'avvento dell'essere che
abbia dimenticato tutto prima di conoscerlo, il nome del padre
e della madre come il proprio, l'ordine e la direzione dei mesi
e dei giorni, gli alfabeti, la numerazione araba e romana, il
metro, il litro e il chilo, i punti cardinali, la rosa dei venti,
le tavole delle leggi, le pene e le scelleratezze e le inutilità
sparse nei millenni e rilegate nei libri, che si meravigli e si
commuova unicamente della vita, come d'un male ingiustificabile
che non si può fingere di sapere organizzare, né
spendere a piccole dosi, ma tutto insieme va assunto, respiro
dopo respiro. A questa divinità inconsapevole di sé
e dell'universo... stiamo già allestendo la cuccia, spegnendoci
un poco ogni giorno o permettendo che per inerzia quelle che sembrano
le nostre intenzioni si mutino in accadimenti, senza afferrarne
il motivo... E una notte l'essere... partorirà da una clavicola
o da un ciglio o da un sogno il proprio erede, primo degli innocenti,
primo bambino della terra nuova, mondata dall'assoluta sofferenza
del padre..." (pp. 174-175).
Forse si può dire che Lodoli, in dieci anni di scrittura,
non ha fatto altro che raccontare dell'attesa e della ricerca
di questa "divinità inconsapevole": poteva essere,
come è nel Diario, una ragazza dolcissima e muta
che può essere amata ma non mai posseduta; o una bestiaccia
immonda trovata nel giardino da una maestra zitella, che se ne
innamora perdutamente; o il figlio senza padre di una domestica
in casa di ricchi, nato e cresciuto nella cantina buia e del tutto
inetto alla vita con la luce; e così via, a ripensarci
è una carrellata di divinità mostruose. Nel Vento
Lodoli mette ancora in scena la stessa storia: la divinità
inconsapevole è il marziano morente, che con la semplice
e ingombrante presenza mette in moto tutta la storia, aiuta a
stordire la morte con una storia confusa; e poi è,
di nuovo, il ragazzo con la tanica, che è il re del mondo
e non lo sa (ma: "forse tra pochi minuti il re del mondo
sarà il benzinaio, poi un camionista che va a sud, uno
che va a nord" [p. 119]) e, proponendo lo scambio, salva
la vita al marziano.
La cosa nuova è che Lodoli-personaggio stesso, lo scrittore,
dichiara la sua impotenza. Se ogni tanto cerca di affermarsi,
è petulante e debole: "Ma sono io che debbo decidere,
sono io lo scrittore", dice a p. 120. "Questo non interessa
più a nessuno", gli si risponde.
"Eppure", riflette Lodoli-personaggio (che è
anche Lodoli-in-carne-e-ossa), "come scrittore avevo esordito
con autorevolezza, avevo impressionato i critici più spietati,
quelli che scannano per un avverbio. Ho ancora gli articoli da
parte, ingialliti dagli anni, ondulati. Qualcuno s'era sbilanciato
prevedendo per me un futuro da scrittore internazionale, vendemmie
di soddisfazioni. C'era chi sottolineava le frasi del mio primo
libro per mandarle a mente. Chissà cosa pensano oggi, quanto
li ho delusi; ma non è colpa mia se poi della letteratura
non mi è interessato più molto, se ho sentito il
tempo che correva con la lingua di fuori verso il precipizio,
se la testa mi ha dato problemi e le parole da robuste e filosofiche
si sono fatte vagabonde. Da giovane sarei andato in piazza come
un araldo, a rullare il tamburo per leggere a tutto il mondo gli
editti altissimi dell'anima mia. Stanotte... [ho solo] vaghi propositi
di salvezza, la macchina satura di indecisioni e il vento che
mi spinge in bocca i capelli della morte." (p. 100) "Penso
ancora che scrivevo romanzi, una volta, mi invitavano a vantarmi
nelle università, parlavo a gente che prendeva misteriosi
appunti e alzava la mano per domandare, stavo immobile davanti
agli scaffali dei classici per gli scatti dei fotografi, firmavo
le copie e mettevo dediche... Ma il posto mio è questo,
lo so, su questo divano che punge, dietro alle galline addormentate,
in mezzo al vento." (pp. 107-108).
E così, si rimane con il dubbio. Che cosa fa veramente
Lodoli quando racconta le sue storie? E' veramente maniera
quella che sembra maniera, oppure è una sincerità
spinta oltre i limiti del sopportabile? Lodoli è contro
l'intelligenza oppure è magicamente oltre? Un'ossessione
monotematica così lunga non si può trascurare, una
così deliberata scelta per la cattiva letteratura non
può essere liquidata dicendo: è cattiva letteratura.
Ovviamente la rinuncia alla letteratura non può che essere
condivisa, oggi, visto che cosa è diventata la letteratura:
un'istituzione tra le altre, un ordine autoritario; oppure spettacolo
leggero, caravanserraglio. D'altra parte ripugna questa sorta
di infantilismo sfrenato che sembra essere la scelta (per ora)
definitiva di Lodoli. E allora? Allora non si può che dire:
questo libro è insopportabile, leggete questo libro. (gm)
Marco Lodoli (classe 1956) ha pubblicato Diario
di un millennio che fugge, romanzo, Theoria 1986; Snack
Bar Budapest, romanzo, Bompiani 1987 (scritto a quattro mani
con Silvia Bre; ne ha ricavato un film imprevedibilmente bello
Tinto Brass, con Giancarlo Giannini protagonista); Ponte Milvio,
poesie, Rotundo, 1988; Grande Raccordo, racconti, Bompiani
1989; I fannulloni, romanzo breve, Einaudi 1990; Crampi,
romanzo breve, Einaudi 1992; Grande Circo Invalido, romanzo
breve, Einaudi 1993 (questi ultimi tre raccolti in un unico volume
nei Tascabili Einaudi, con il titolo I principianti), Calendarietto,
racconti, Castelvecchi 1994; Cani e lupi, racconti, Einaudi
1995.
CALVINO: UN'IDEA DI LETTERATURA. Marco Belpoliti, L'occhio
di Calvino, Einaudi, pp. 286, L. 42.000
Il narratore Marco Belpoliti (del quale va ricordato almeno -
e vorrà dire qualcosa il nome del protagonista - il bel
romanzo Italo, Il Sestante, pp. 397, L. 20.000) ha raccolto
in volume (rielaborandole e aggiungendovi parecchio di nuovo)
alcune indagini su Italo Calvino compiute nell'arco di una decina
d'anni (ricordiamo che Belpoliti ha anche curato un numero monografico
della rivista Riga intitolato: "Italo Calvino. Enciclopedia:
arte, scienza e letteratura" (n. 9, 1995, ed. Marcos y Marcos).
Il sugo del libro è dichiarato nel primo capoverso: ci
accorgiamo, scrive Belpoliti, che Calvino è "uno dei
pochi scrittori che può accompagnarci" nel "varcare
la soglia del secondo millennio" (Six memos for the next
millennium è il titolo originale di quelle che comunemente
si chiamano Lezioni americane): "e non certo per meriti
letterari - che pure non gli mancano - ma in virtù di un'idea
di letteratura che egli ha coltivato nell'ultimo ventennio della
sua lunga attività" (p. IX). Quindi il volume di Belpoliti
non è, se non occasionalmente e funzionalmente, un libro
di critica su Calvino, ma una vera e propria ricerca di
teoria della letteratura; che pertanto si può consigliare
non solo al lettore interessato alle indagini su Calvino, ma anche
e soprattutto al lettore interessato alle sorti generali della
letteratura.
Nella prima sezione ("Storie del visibile") Belpoliti
definisce e articola una poetica (e una teoria, appunto) calviniana
della letteratura come poetica della visibilità;
usando indiscriminatamente (e bene) come fonti sia i saggi, sia
le opere narrative, censisce e illustra le metafore usate da Calvino
per alludere alla struttura dell'opera letteraria: la mappa, la
rete, il labirinto, lo specchio, la griglia, il catalogo, il museo,
il cristallo, la carta geografica ecc.: tutte metafore che tentano
di istituire o fissare la relazione tra l'opera letteraria e il
mondo, o piuttosto tra la forma dell'opera letteraria e la forma
del mondo. Questa relazione è, inevitabilmente, la forma
della nostra percezione. "Vedere significa percepire delle
differenze" è una frase che Belpoliti estrae da un
articolo di Calvino su un viaggio in Giappone (p. 33) e sulla
quale lavora e lavora, usandola come baricentro del discorso.
La seconda sezione ("Il foglio e il mondo") è
centrata sulla descrizione e sulle modalità di descrizione
che scaturiscono appunto dalle metafore già citate; la
successiva è dedicata alle relazioni di Calvino con le
arti visive: la fotografia e la pittura. Nella sezione sulla fotografia
è particolarmente brillante (pp. 117-124) l'analisi del
racconto "L'avventura di un fotografo" (negli Amori
difficili), in quella sulla pittura sono suggestive le pagine
su Giulio Paolini (159-167), riferite a un saggio pubblicato nel
1975 (e leggibile oggi nell'edizione mondadoriana dei Saggi
di Calvino, 2 voll., L. 110.000).
Forse il volume di Belpoliti è un po' dispersivo e ridondante;
tuttavia è opportuno perché Calvino è forse
davvero, in questi anni, un maestro rimosso o nascosto (come già
indicava Generoso Picone nel saggio sulla nuova narrativa italiana
"Ipotesi critiche per la lettura di un'onda", in Paesaggi
italiani, a cura di Angelo Ferracuti, Transeuropa 1993, pp.
58 sgg.). La ricerca di una lingua o di una parola innamorata,
durante tutti gli anni Ottanta, ha molto rivitalizzato la nostra
letteratura, in prosa così come in poesia; tuttavia qualcosa
di quel che si è acquisito in vitalità si è
perso in struttura (o: quel che si è guadagnato in lessico
si è perso in sintassi); i narratori d'oggi sono molto
più colorati del grigissimo Moravia o del traslucido Calvino,
e tuttavia le loro immagini sono meno nitide. Se del romanzesco
borghese non si sa più che farsene (ed è per
questo che Moravia appare oggi, come maestro, morto e sepolto),
la capacità strutturante di Italo Calvino appare invece
ancor oggi utile, produttiva, imitabile e sviluppabile. E poiché
la capacità strutturante di Calvino nasce proprio dall'esperienza
della, e dalla riflessione sulla, visione, il libro di
Belpoliti viene a battere un ferro caldissimo. (gm)
POESIA: LE RIVISTE. Aa.Vv., Le regioni della poesia:
riviste e poetiche negli anni Ottanta, a cura di Roberto Deidier,
Marcos y Marcos, Genova, pp. 214, L. 22.000
Questo è un libro importante (vietato farsi ingannare dalla
copertina orribile). Il mese scorso (Nautilus, agosto 1996)
segnalavamo il volume a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica,
La parola ritrovata: ultime tendenze della poesia italiana
(Marsilio, pp. 243, L. 34.000); ora questo volume curato da Roberto
Deidier dà un altro bel contributo alla perlustrazione
o mappatura della poesia italiana dello scorso decennio, o piuttosto
dal 1980 in qua. (Viene da dire: ormai manca solo una buona antologia,
e poi avremo gli strumenti per renderci conto di che cosa è
successo in questo quindicennio di espulsione della poesia
dalla cultura e dalle case editrici.) L'idea del libro è
semplice, illuminante nella sua semplicità. Scrive Deidier
nella premessa: "Dov'era finita un'intera generazione? Dove
si esprimeva, e in che modi? Al lettore non specialista, ma in
parte anche agli addetti ai lavori, poteva sembrare che, con rarissime
eccezioni, la storia anagrafica della poesia italiana si fosse
bruscamente interrotta. Su queste premesse si è formato
lo spirito da cui nasce questo libro. Una prima ricerca, quindi,
sulla poesia nel mondo delle riviste e delle loro piccole, eventuali
filiazioni editoriali, di qualunque provenienza, entità
e formato, indagata all'interno di un contesto regionalistico
che amplia decisamente l'orizzonte delle contraddizioni e dei
dualismi rispetto agli schemi più appariscenti" (p.
10). Dopo due brevi saggi riassuntivi e storicizzanti di Deidier
(con asciutta e utile bibliografia) e di Daniela Marcheschi, seguono
le descrizioni: "Passaggio a nordovest" di Umberto Silva,
"Viste e riviste di poesia in Lombardia: storia e tassonomia"
di Rinaldo Caddeo, "Ottanta a nordest" di Fernando Marchiori,
"Gli 'immediati dintorni' della poesia in Emilia e in Romagna"
di Alberto Bertoni, "Uno sguardo sulla Toscana" di Daniela
Marcheschi, "Marche: per una mappa delle 'residenze'"
di Daniele Garbuglia, "La 'scuola romana'" di Roberto
Deidier, "Verso il sud del mondo: la poesia nelle riviste
pugliesi" di Daniele Giancane, "Riviste a mezzogiorno"
di Pino Corbo. In appendice le schede editoriali di un'ottantina
di riviste, viventi e cessate (si sente la mancanza di un indice
dei nomi; ma compilarlo sarebbe stato forse uno sforzo sovrumano,
tant'è denso il volume).
I contributi sono, com'è naturale, di diverso spessore
e non uniformi nell'impostazione: più storicizzante, ad
esempio, quello di Deidier sulla cosiddetta "scuola romana",
più appassionato e di parte quello di Fernando Marchiori
sulla poesia nelle Tre Venezie, e così via. Nessuno comunque
ha l'impianto rigidamente cronachistico, anzi c'è una grande
circolazione di idee. Dispiace (ma non poteva essere altrimenti,
probabilmente) che la rendicontazione di ciò che è
avvenuto a sud di Roma sia meno puntigliosa e dettagliata rispetto
alla pressoché completa informazione sul centro-nord.
Aspettiamo, dunque, che qualche coraggioso ponga mano all'antologia.
(gm)
FILOSOFIA E SCRITTURA. Rocco Ronchi, Luogo comune. Verso
un'etica della scrittura, Egea, pp. X-144, L. 20.000
Di questo libro ci è sembrato notevole soprattutto il saggio
che lo apre, intitolato appunto Verso un'etica della scrittura.
"Ciò che l'immagine fa", scrive Ronchi, "è
(...) un comunicare l'essere, la durata, nelle cose. Essa
non aggiunge quindi nulla, ma disvela, mette in comune ciò
che senza di lei andrebbe per sempre perduto." Dove il verbo
comunicare non significa quel che intendono quando parlano
di comunicazione gli esperti di marketing; ma significa
"circolazione, trasmissione e condivisione da parte della
comunità di un senso che non si appiccica dal di fuori
alla realtà, ma che è la realtà stessa lasciata
finalmente essere, resa visibile, pubblica". La comunità
è fondata su fondamenti invisibili; la letteratura fa esistere,
vedere, durare nel tempo, comunicare questi fondamenti. "Lo
spazio ideale di una città (di un luogo comune reso
abitabile da una comunità) non può essere sradicato;
sopravvive anche quando le sue mura sono state rase al suolo,
i suoi palazzi sepolti ed i suoi abitanti fatti schiavi. Non si
può infatti distruggere empiricamente ciò che ha
le sue radici nell'invisibile."
Il nostro tempo è il tempo della comunicazione (così
si dice; e internet ne è l'emblema, si dice anche) ma è
anche il tempo in cui, nel nome di un rinnovato senso di appartenenza
a una comunità (tecnologicamente fondata), si tenta
la liquidazione definitiva della comunità. La ragione filosofica
(madre di tutte le ideologie) ha perduta ogni capacità
di reale accomunamento tra gli uomini e il mito torna comodo come
giustificazione della barbarie etnica. Per la sua capacità
di aderire in modo incondizionato alla nudità dell'esistenza,
ossia all'assenza di mito, la scrittura può allora
(forse) proporsi come luogo comune di un'umanità riconciliata
con la propria essenza mortale. Il nobile scopo del saggio di
Ronchi è di far vedere il valore etico e fondante (e non
più e non solo estetico o consolatorio) della scrittura.
Erano anni che non capitava di incontrare una riflessione così
teoricamente spessa e così attuale sulla letteratura. Ci
auguriamo che trovi lettori e ascoltatori, non solo tra i filosofi
ma - soprattutto - tra gli scrittori, che Ronchi implicitamente
invita a tirarsi fuori dalla condizione attuale di produttori
di "semplice e sempre più obsoleta ricreazione intellettuale
per una società alienata". Tra gli altri saggi compresi
nel volume, particolarmente notevole "Lo scatto di una serratura",
dedicato a Giorgio Caproni. (gm)
SOMMARIO. Introduzione: Verso un'etica della
scrittura. Esempi: Il "senso dell'animo" (Leopardi);
Sentire l'irreparabile (Pascoli); Lo scatto di una serratura (Caproni).
Appendice: L'evidenza assurda (Tolstoj e Jankélévitch).
Rocco Ronchi è nato nel 1957. Ha pubblicato:
Bataille Lévinas Blanchot. Un sapere passionale (Spirali
1985); Bergson filosofo dell'interpretazione (Marietti
1990); La scrittura della verità. Per una genealogia
della teoria (Jaca Book 1996). Ha curato: Giovanni Pascoli,
L'Era nuova: pensieri e discorsi, Egea 1994.
UN CD DI KEATS. Steven Brown, Steven Brown reads John
Keats: the days is gone & other sonnets, Sub Rosa, CD004-21
(distribuzione: PiaS). Durata: 42'3".
Questo CD (non recentissimo e abbastanza difficile da trovare)
è particolare e molto bello. Alcuni sonetti sono semplicemente
letti; altri sono accompagnati da una musica molto discreta e
lieve, quasi minimalista ma senza concessioni al genere New
Age. Alcuni brevi interludi musicali sono inseriti ogni tre
o quattro sonetti. Il pezzo iniziale, che dura poco più
di dieci minuti, è un collage di versi singoli o di estratti
molto brevi da poesie diverse, tenuto insieme dalla ripetizione
(più come un accompagnamento musicale, un riff, che come
un ritornello) dei due versi iniziali (e finali) di Fancy (Fantasia):
"Ever let the Fancy roam, / Pleasure never is at home"
("Lascia sempre vagare la fantasia, / il piacere non è
mai qui"). In questo pezzo Steven Brown a volte sovrappone
più volte la sua stessa voce, oppure mescola la voce naturale
alla voce filtrata elettronicamente. Il tutto è fatto con
molta discrezione e la tecnologia non si sente.
La lettura di Brown non si può definire espressiva
o interpretativa (nel senso in cui spesso gli attori parlano
di interpretazione): sembra invece molto tranquilla, umile,
impegnata nella chiarezza della pronuncia. Brown sta molto attento
a far "sentire" il verso (misura, ritmo, rima), riuscendo
sempre a non banalizzarlo a cantilena. Molto bella è la
Canzone degli opposti (Song of opposites, cioè
la poesia che comincia con "Welcome joy, and welcome sorrow",
"Siano benvenuti la gioia ed il dolore"), dove pure
il rischio della cantilena (soprattutto per un orecchio italiano)
è forte.
L'accuratezza del lavoro si vede anche nella ricerca di alcune
corrispondenze. Ad esempio il disco inizia con Fancy: "Lascia
volare la fantasia, spalancale la porta della mente. I giorni
della primavera appassiscono, le gioie dell'estate si consumano;
durante l'inverno, quando le notti sono lunghe e gelide, sta vicino
al fuoco e lascia andare la fantasia: ti porterà, a rivincita
sul gelo, tutte le bellezze che la terra ha perso" ecc.;
e termina, simmetricamente, con uno stralcio da What can I
do to drive away?: "Come posso togliermi il tuo ricordo
dagli occhi? - che ti hanno vista, appena un'ora fa, mia regina
splendente! Anche il tatto ha memoria...": così vengono
messi in scena sia il potere liberatorio sia quello imprigionante
della fantasia e della memoria.
Il disco contiene una dozzina tra i sonetti più celebri
di Keats; non comprende invece nessuna delle grandi odi. Alcuni
sonetti sono stati registrati all'aperto, nel cimitero degli acattolici
di Roma (vicino alla piramide di Caio Cestio), dove si trova la
tomba di John Keats. Si sentono, in lontananza, rumori di passi;
e il rumore del terribile traffico di Roma. Anziché disturbare
questi rumori danno una sensazione di vicinanza, di prossimità;
e rendono l'esecuzione particolarmente commovente. (gm)
Al CD sono allegati i testi solo di due sonetti:
The Day is Gone e O thou whose face. Risulta essere
il primo numero di una collana denominata Psalmodia, ma non abbiamo
trovato traccia di altri CD. Le segnalazioni sono gradite.