[Quando si decise, in redazione, di pubblicare dentro Nautilus un corso di scrittura narrativa a puntate, ci si pose il problema di come chiamarlo. Be’, disse Cesare, che è un tipo pratico: potremmo chiamarlo Corso di scrittura narrativa a puntate. Tutti insorsero. Mario disse: non si può, fa da ridere. Alberto disse: già c’è quello della Fabbri a puntate in edicola, che è una scemata. Luisella disse: allora facciamo un bel brainstorming. Il brainstorming, per chi non lo sapesse, sarebbe la tempesta di cervelli. Ossia: si sta tutti attorno al tavolo, con licenza di bere e fumare, e per un tempo indeterminato si dicono tutti i nomi che passano per la testa. Il giorno dopo, smaltita la sbornia e la nicotinite, si farà la scelta. Ecco i nomi proposti (almeno quelli che ho decifrati dai miei fogli di appunti). Palestra di parole. Jeux de mots. A Puntatical Course of Narrative Writing. Il giovane Holding. Carta & Penna. Tasti & Testi. Narrattiva interrattiva. Non si è mai troppo tordi. Storie da raccontare. Raccontare. La palestra dei lettori. Questo l’ho fatto io! Come imparare a scrivere senza perdere i capelli. Matite succhiate e cervelli strizzati. Dare e avere. Intercreatività. Capitano Nome. Ventimila righe sotto i mari. Viaggio al centro della scrittura. Istituzioni oratorie. Orator. Breve corso di retorica e stilistica ad uso degli aspiranti scrittori, con elementi di narratologia ed esercizi pratici (con una guida alla loro soluzione). Come si scrive. How to write. Ehilà, ragazzi, perché non scriviamo una storia? Siamo tutti narratori. Quante storie! Scrittori si diventa, non si nasce. Scrittori si nasce, ma perché non prepararsi un po’ in vista di una possibile reincarnazione? La seduta fu tolta a notte fonda. Il giorno successivo, smaltite la sbornia e la nicotinite, si decise che il corso di scrittura narrativa a puntate si sarebbe chiamato Corso di scrittura narrativa a puntate. Cesare votò contro. Si accettano proposte, usate l’E-mail.]
Patti chiari
Questo corso non ha molte ambizioni. Se vi fa piacere scrivere o raccontare storie, se pensate che possa essere un’attività divertente, se credete di avere un minimo di predisposizione, se pensate che educare il vostro talento naturale possa esservi utile: allora state qui. Sennò cliccate quello che vi pare e cambiate pagina.
dottore: Nonnina, le avevo detto di non fare le scale...
Non posso dire: "sono due mesi che mi arrampico per le grondaie", perché il verbo arrampicarsi anticiperebbe la battuta finale, depotenziandola. Queste, come si diceva, sono cose che tutti sanno istintivamente. Ma non tutti ne hanno consaspevolezza.
Quindi lo scopo di questo corso, per definizione interattivo, è di spingere le persone che scrivono o vogliono scrivere storie a diventare più consapevoli di quello che fanno quando scrivere storie. Tutto qui.
Si comincia dall’inizio, anzi dall’incipit
I miei mali sono cominciati tutti alcuni mesi dopo il mio ritorno dalla prigionia in Germania, quasi che la terra materna, dopo tanto e così crudele distacco, mi rigettasse. Io sono nato il 12 marzo 1919 ad Avignone, in Francia; ma sono italiano e di genitori italiani, padre piemontese e madre veneta, nata nella campagna fra Padova e Treviso, in luoghi assai belli, ella mi ha sempre detto, che io non conosco. Oggi che scrivo ho già compiuto trentasei anni e i miei mali sono arrivati a un punto tale che non posso fare a meno di denunciarli. Scrivo, stando a casa mia, a Candia, nel Canavese, in provincia di Torino. Questa casa è fuori del paese, verso il piccolo lago di Candia; ma un poco spostata a sinistra, tra pese e lago, verso la collina; è una casa di campagna con un poco di orto, la sua loggia di mattoni rossi, il fienile e la stalla abbandonati, dove vivono in disordine alcune galline, due galli e una famiglia di conigli, quasi selvatici. Io non curo la terra né gli animali da cortile, perché sono un operaio di una fabbrica in città; di una fabbrica grande più della stessa città.
Quante cose apprendiamo da questo incipit? Innanzitutto le coordinate spaziotemporali: sappiamo dove siamo e che siamo nel primo dopoguerra. Poi apprendiamo una quantità di cose materiali sul personaggio narratore: l’età, la condizione sociale piuttosto bassa (i genitori sono andati a lavorare in Francia), l’origine contadina, la prigionia o il lavoro forzato in Germania ecc. Ma apprendiamo anche, e fin dalle primissime parole, molte cose sul carattere del personaggio. L’espressione "i miei mali", così indeterminata e onnicomprensiva, ci fa pensare subito a un personaggio mentalmente turbato. Così anche la dichiarazione: "io non curo la terra perché sono un operaio", con il suo carattere di decisione eccessivamente radicale, di esagerata adesione al ruolo sociale di operaio, rafforza l’impressione. La frase: "una fabbrica grande più della stessa città" ci fa capire che il personaggio vive la fabbrica come luogo mitico e magico, e che quindi il suo senso di realtà fa acqua.
Sul finire dell’estate di quell’anno eravamo in una casa in un villaggio che di là del fiume e della pianura guardava le montagne. Nel letto del fiume c’erano sassi e ciottoli, asciutti e bianchi sotto il sole, e l’acqua era limpida e guizzante e azzurra nei canali. Davanti alla casa passavano truppe e scendevano lungo la strada e la polvere che sollevavano copriva le foglie degli alberi. Anche i tronchi degli alberi erano polverosi e le foglie caddero presto quell’anno e si vedevano le truppe marciare lungo la strada e la polvere che si sollevava e le foglie che, mosse dal vento, cadevano e i soldati che marciavano e poi la strada nuda e bianca se non per le foglie. Qui è tutto molto più indeterminato; non sappiamo ancora niente della vicenda, dell’esatta situazione eccetera. Tuttavia apprendiamo subito che, benché in prima persona, ci troviamo difronte a una storia "pura" (non una denuncia ecc.). Ma soprattutto veniamo immediatamente presi dal ritmo della prosa: pochissime virgole, molte "e", un ritmo breve e veloce. Capiamo subito che il senso principale del personaggio narratore è la vista. E capiamo anche che, nonostante l’apparente estremo realismo visivo, siamo a due passi dalla visionarietà. L’ultima frase riprende alcuni elementi delle frasi precedenti e li fa, per così dire, girare vorticosamente; per poi ripresentarci l’immagine della "strada nuda e bianca". Percepiamo subito la somiglianza tra questo procedimento e una struttura musicale (ad es. un crescendo nel quale si accumulano diversi strumenti a canone e per imitazione; che si interrompe di colpo lasciando il posto ad un accordo immobile, di note tenute). Quindi capiamo subito di aver che fare con un testo attentissimo ai valori ritmici e musicali, oltre che alla visibilità delle cose; in sostanza, un testo che sarà un esercizio di stile da cima a fondo (come in effetti è Addio alle armi, Oscar Mondadori). Quello che noi dobbiamo fare, come lettori, è lasciarci prendere e coinvolgere (Volponi, al contrario, mettendo in scena un personaggio narratore inattendibile ma che vuole convincerci di qualcosa, sollecita nel lettore un atteggiamento critico).
Gli altri esseri umani li trovai nella direzione opposta, in quanto non andai più all’odiato ginnasio, ma, ciò che fu la mia salvezza, a fare l’apprendista, cioè al mattino presto, contro ogni ragionevolezza, non andai più con il figlio del consigliere governativo lungo la Reichenhaller Strasse verso il centro della città, ma andai lungo la Rudolf-Biebl-Strasse verso la periferia con il garzone del fabbro che abitava nella casa accanto, e non passai più attraverso i giardini incolti e davanti alle artistiche ville per andare all’Alta scuola della borghesia e della piccola borghesia, ma passai davanti all’istituto dei ciechi e a quello dei sordomuti e sopra il terrapieno della ferrovia e attraverso i giardini al margine della città e accanto alle staccionate del campo sportivo vicino al manicomio di Lehen per andare all’Alta scuola dei reietti e dei poveri, all’Alta scuola dei pazzi e di quelli che sono dichiarati pazzi, nel quartiere di Scherzhauserfeld, in quello che è per antonomasia il quartiere degli orrori della città, fonte di quasi tutti i processi giudiziari di Salisburgo e nella cantina adibita a negozio di generi alimentari di Karl Podlaha, il quale era un essere umano distrutto e un sensibile temperamento viennese che sarebbe voluto diventare un musicista e invece era sempre rimasto un piccolo bottegaio.
Anche questo incipit ci dice che del libro che leggeremo saranno importanti i valori ritmici e musicali, la sintassi, le virgole ecc.; anche qui abbiamo la precisa sensazione di aver che fare con una percezione alterata (ci viene anche detto: "contro ogni ragionevolezza"); solo che qui né ci viene chiesto (come nel primo esempio) di condividere o non condividere, né ci viene chiesto di lasciarci coinvolgere: questa lingua così strana ci rifiuta, è evidente. Mentre questa lingua ci invade noi sentiamo di doverci difendere. E’ innegabile un senso di disagio, o almeno di spiazzamento.
Quattro incipit da proseguire 1. NELL’UFFICIO POSTALE
L’uomo ringraziò. 2. LA CASA DI MICHELE Michele abitava in una casa troppo grande per lui. La avevano abitata, in altri anni, sconosciuti parenti. Michele la aveva ereditata con tutto dentro, strapiena di mobili e cose. Volentieri aveva lasciato l’appartamento d’affitto per occuparla. All’inizio ne aveva usate solo poche stanze, cucina bagno camera da letto: come intimorito. Poi aveva cominciato ad esplorare. Tornava dall’ufficio alle cinque e mezza, sceglieva un mobile, lo apriva, lo svuotava, apriva tutte le scatole e scatolette, scuoteva i vestiti appesi, frugava le tasche. Trovò in un cassetto un album di fotografie in bianco e nero. Lo sfogliò e risfogliò. Poi staccò le fotografie e le appese tutte, con il nastro biadesivo, alla parete più libera del salotto. Così poteva vederle tutte insieme. Dalla parete nessuna faccia conosciuta lo guardava. 3. MORTE DI RICHESSE Siete i benvenuti, signori. Speravo proprio che veniste. Ecco, entrate. Fate piano, per favore. Se volete togliervi i mantelli, prego. Un attimo, li porto di là. Ecco. Forse c’è qualcuno che non conoscete ma, chiedo scusa, preferisco non fare presentazioni. E’ meglio se non c’è rumore di sedie e di conversazione. Tutti siete qui per la stessa ragione, mi pare che questo basti. Ecco, da questa parte. Richesse è nella sua stanza ma non posso farvi entrare adesso, ci sono i medici. Credo che non staranno dentro a lungo. Hanno finito il loro lavoro e non servono più. Hanno fatto quello che potevano, credo. Ecco, sedete pure qui. D’altra parte Richesse aveva detto subito che non sarebbe servito. Ma voi sapete com’è fatto Richesse, ha voluto fare tutto come si conviene. Ha lasciato che lo visitassero, che lo palpassero, che lo auscultassero, che gli facessero tutto. Ha preso le medicine e ha fatto gli impacchi, come fosse stato davvero convinto che gli sarebbero serviti. L’ho perfino sentito dire a uno di loro che dopo gli impacchi si sentiva meglio. Naturalmente non è vero. 4. IL TELEFONO, LA TUA VOCE Sei alla stazione di Bologna. Sei sola. Hai a tracolla da una parte la borsone con dentro tutto: i vestiti, la sveglia, i libri, i quaderni di appunti. Dall’altra parte hai la valigetta di pelle che ti fa da borsetta. Hai addosso il cappotto nero. Sull’intercity da Firenze c’era troppo caldo. Sei sudata sotto i vestiti. All’aperto sotto le pensiline è freddo. L’espresso per Venezia è tra ventidue minuti. Devi scendere a Monselice, tornare a casa. Di mercoledì. Sei scappata dall’appartamento in fretta. Dovrai trovare qualcosa per spiegare a casa. Hai storia moderna tra diciassette giorni. Se dirai che devi solo stare in pace forse non diranno niente. Devo solo stare in pace per studiare, non ci sono più lezioni. Prova a dirlo. Fai la faccia. Mamma, sono tornata a casa per studiare meglio. Devo solo stare in pace. Coccolami, preparami da mangiare, lasciami dormire. Passerò l’esame. Forse dovresti telefonare. Mancano ventuno minuti, puoi telefonare. Chi ne ha voglia. La scheda ce l’hai. Qualcosa da leggere Ultimamente si sono pubblicati, in Italia, moltissimi libri che parlano dello scrivere e del raccontare. Uno molto bello è Il mestiere di scrittore di John Gardner (Marietti, pp. 199, L. 20.000), provvisto di una prefazione di Raymond Carver che di Gardner fu allievo. E’ un libro americano e quindi parla dello "scrittore" in un maniera un po’ strana per noi del vecchio continente (esclusivamente come di una professione, appunto); comunque non è un manuale (questo è molto importante) ma un libro di riflessioni e consigli. E’ significativo che per Gardner siano quasi sinonime le espressioni "buona narrativa" e "narrativa di successo". Gardner pensa alla narrativa come a un intrattenimento intelligente, divertente e istruttivo: La buona narrativa scatena un sogno vivido e ininterrotto nella mente del lettore. E’ "generosa", nel senso che è completa e autonoma: risponde, esplicitamente o implicitamente, a tutte le domande insensate che il lettore può fare. Non ci lascia in sospeso, a meno che la sua inconcludenza non sia giustificata dalla narrazione stessa. Non fa dei giochini inutilmente sottili, in cui la narrazione di storie si confonde con la costruzione di un puzzle. Non mette alla prova il lettore, esigendo da lui qualche particolare conoscenza prescindendo dalla quale gli avvenimenti non avrebbero senso. In breve cerca, senza compiacimenti, di convincere e di piacere. E’ significativa da un punto di vista intellettuale e emotivo. E’ elegante e funzionale: vale a dire, non usa un numero di scene, personaggi, particolari fisici e accorgimenti tecnici maggiore di quello che gli serve per raggiungere il suo effetto. Ha un disegno. Ci dà lo stesso piacere particolare che traiamo dall’assistere, con occhi pieni di apprezzamento e di stupore, a una performance. In altri termini, osservando ciò che lo scrittore è riuscito a fare, ci sentiamo appagati: "Come lo fa sembrare facile!", esclamiamo, consapevoli di difficoltà egregiamente superate. E infine una storia riuscita dal punto di vista estetico racchiuderà in sé un’intuizione della singolarità dell’esistenza, per quanto prosaiche siano le sue componenti. (p. 61) Tanto per fare un paragone, vediamo che cosa scrive Giampaolo Rugarli nel suo Manuale del romanziere (Anabasi, pp. 254, L. 30.000), che in realtà del manuale non ha assolutamente nulla (ed è, tanto per esser chiari, un libro "ispirato dal fastidio e dalla noia che le scuole di scrittura creativa suscitano in me", dichiara Rugarli).
Forse il romanzo è sogno ad occhi aperti, ossia parente stretto del sogno a occhi chiusi; ponte lanciato verso un continente che, pur spettando all’uomo, non è stato ancora esplorato: in altri termini il romanzo completerebbe la stagione delle grandi scoperte, puntando la prua verso il chiuso dell’anima anzi che verso le Americhe ("tutti i romanzi di tutti i tempi indagano l’enigma dell’io" avverte Kundera).
Probabilmente ogni romanzo è la rappresentazione semplificata di un sistema, e dunque è un modello, ancorché sui generis. I modelli partono dal conosciuto o dal conoscibile verso l’ignoto e, attraverso un gioco combinatorio di variabili e di costanti, approdano a una o più ipotesi; spesso i risultati non sono attendibili e costringono a complesse operazioni di verifica, di aggiustamento e di taratura. In nessun caso si perviene a una certezza: il massimo che può ottenersi è di sfoltire la ridda delle congetture, di passare dalla tenebra alla penombra.
La parola chiave sembra essere la stessa: il sogno. Tuttavia è chiara la diversità di approccio: Gardner parla della narrativa in maniera pratica, ossia morale; Rugarli adotta un curioso linguaggio un po’ scientifico e un po’ evocativo. Per Gardner la chiarezza è un requisito primario; Rugarli sembra veleggiare verso l’esplorazione del caos.
Nel prossimo Nautilus
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