[cultura]
Corso di scrittura narrativa a puntate
€€di Giulio Mozzi (prima puntata)



[Quando si decise, in redazione, di pubblicare dentro Nautilus un corso di scrittura narrativa a puntate, ci si pose il problema di come chiamarlo. Be’, disse Cesare, che è un tipo pratico: potremmo chiamarlo Corso di scrittura narrativa a puntate. Tutti insorsero. Mario disse: non si può, fa da ridere. Alberto disse: già c’è quello della Fabbri a puntate in edicola, che è una scemata. Luisella disse: allora facciamo un bel brainstorming. Il brainstorming, per chi non lo sapesse, sarebbe la tempesta di cervelli. Ossia: si sta tutti attorno al tavolo, con licenza di bere e fumare, e per un tempo indeterminato si dicono tutti i nomi che passano per la testa. Il giorno dopo, smaltita la sbornia e la nicotinite, si farà la scelta. Ecco i nomi proposti (almeno quelli che ho decifrati dai miei fogli di appunti). Palestra di parole. Jeux de mots. A Puntatical Course of Narrative Writing. Il giovane Holding. Carta & Penna. Tasti & Testi. Narrattiva interrattiva. Non si è mai troppo tordi. Storie da raccontare. Raccontare. La palestra dei lettori. Questo l’ho fatto io! Come imparare a scrivere senza perdere i capelli. Matite succhiate e cervelli strizzati. Dare e avere. Intercreatività. Capitano Nome. Ventimila righe sotto i mari. Viaggio al centro della scrittura. Istituzioni oratorie. Orator. Breve corso di retorica e stilistica ad uso degli aspiranti scrittori, con elementi di narratologia ed esercizi pratici (con una guida alla loro soluzione). Come si scrive. How to write. Ehilà, ragazzi, perché non scriviamo una storia? Siamo tutti narratori. Quante storie! Scrittori si diventa, non si nasce. Scrittori si nasce, ma perché non prepararsi un po’ in vista di una possibile reincarnazione?
La seduta fu tolta a notte fonda. Il giorno successivo, smaltite la sbornia e la nicotinite, si decise che il corso di scrittura narrativa a puntate si sarebbe chiamato Corso di scrittura narrativa a puntate. Cesare votò contro. Si accettano proposte, usate l’E-mail.]

Patti chiari

Due parole di presentazione. Giulio Mozzi (ossia l’autore di questo corso) è nato nel 1960 e dal 1968 abita a Padova. Dal 1986 al 1989 ha partecipato alla rivista di poesia contemporanea Scarto minimo. Nel 1993 ha pubblicato con Theoria Questo è il giardino, racconti (premio Mondello per l’opera prima). Nel 1996 ha pubblicato con Einaudi La felicità terrena, ancora racconti (finalista al premio Strega, finalista al premio Pietro Chiara). Nel 1994 ha realizzato per la compagnia teatrale Fantaghirò di Padova una riduzione del Mago di Oz di L. Frank Baum. Nel 1995 ha collaborato con la stessa compagnia e con il regista albanese Edmond Budina per lo spettacolo Il Dipartimento dei sogni, da poesie e prose di Ismaìl Kadaré. Ha curato, insieme a Silvia Ballestra e con la collaborazione di Diana Boria, il volume Coda (in uscita a settembre 1996) che raccoglie racconti scritti da ragazzi con meno di 25 anni. Ha pubblicato racconti su svariati periodici, da il manifesto a La difesa del popolo, da Gulliver a Marie-Claire, e su riviste letterarie (Panta, Il rosso e il nero, Galleria, Omero, Verso dove ecc.), e uno anche sul numero di luglio 1996 di Nautilus. Collabora con il quotidiano il manifesto e il settimanale Avvenimenti. Dal 1993 tiene corsi di scrittura creativa presso circoli culturali e scuole pubbliche. Per la casa editrice Theoria sta preparando un progetto di collana interamente dedicata alla scrittura narrativa e poetica.

Questo corso non ha molte ambizioni. Se vi fa piacere scrivere o raccontare storie, se pensate che possa essere un’attività divertente, se credete di avere un minimo di predisposizione, se pensate che educare il vostro talento naturale possa esservi utile: allora state qui. Sennò cliccate quello che vi pare e cambiate pagina.
Questo corso non ha carattere professionale. Un talento naturale per raccontare storie ce l’ha chiunque. Il fatto è che quasi tutti, quando raccontiamo storie, lo facciamo d’istinto. Non siamo consapevoli di quello che facciamo mentre raccontiamo una storia. Spesso organizziamo le cose nel modo giusto, ma non sappiamo che stiamo organizzando le cose nel modo giusto. Avete mai raccontato una barzelletta? Se sì, sapete benissimo che la battuta che fa ridere dev’essere in fondo. La parola-chiave deve essere l’ultima. Non c’è rimedio. A costo di fare una frase contorta, non potete anticipare.

dottore: Nonnina, le avevo detto di non fare le scale...
vecchietta: Fa presto a dire lei, sono due mesi che vado su per le grondaie
.

Non posso dire: "sono due mesi che mi arrampico per le grondaie", perché il verbo arrampicarsi anticiperebbe la battuta finale, depotenziandola. Queste, come si diceva, sono cose che tutti sanno istintivamente. Ma non tutti ne hanno consaspevolezza. Quindi lo scopo di questo corso, per definizione interattivo, è di spingere le persone che scrivono o vogliono scrivere storie a diventare più consapevoli di quello che fanno quando scrivere storie. Tutto qui.
Inutile dire che per consapevolezza intendiamo: sia la conoscenza di un certo numero di cose (abilità), sia anche un atteggiamento; al limite uno stato d’animo. Molte persone ritengono che per scrivere occorra essere in uno stato d’animo eccitato. Ci si sente dire spesso: "Io scrivo quando sono triste, allegro, innamorato, piantato, preso nel gorgo della solitudine e dell’alcol ecc.". Queste sono opinioni abbastanza false. Un buon lavoro di scrittura richiede tempo, applicazione, serenità o almeno lucidità. La consapevolezza non è uno stato alterato della coscienza: la consapevolezza è, se così si può dire, uno stato storico della coscienza. Un buon lavoro di scrittura è soprattutto un lavoro di ri-scrittura. Di solito le cose scritte "sull’onda dell’emozione" sono imprecise, sciatte e difficili da capire; oppure inutilmente barocche e fastidiose. E’ dell’emozione che dobbiamo parlare, senza dubbio: tuttavia siamo noi che dobbiamo parlare dell’emozione, e non l’emozione che deve parlare attraverso di noi. Facciamo uno schemino:

Urlo <------------------------------------------------------------------------------> Mania

L’emozione pura si esprime attraverso quello che possiamo chiamare l’urlo: comunque un’azione non verbale. Alla persona amata che torna da un lungo viaggio non facciamo tanti discorsi: gli (o le) saltiamo addosso. Difronte alla disgrazia si piange, si grida, si batte la testa sul muro. La felicità (dicono) fa dormire benissimo.
Dalla parte opposta della linea c’è la mania. La mania è la parola assolutamente controllata, senza nulla che sfugga. Ad esempio, le istruzioni per l’uso di Word 6.0 (con il quale è stato scritto questo testo) sono un libro maniacale di 973 pagine nel quale non c’è una sola parola o una sola virgola che non sia (secondo gli autori) funzionale allo scopo: descrivere il funzionamento di Word 6.0. Nessuna frase cordiale, nessun aiuto, nemmeno una battutina scherzosa.
La nostra linea quindi rappresenta la classica opposizione tra caldo e freddo. Ora non diremo che in medio stat virtus, ossia che la scrittura ideale è tiepida; diciamo invece che la scrittura è un continuo andivenire lungo questa linea: a tratti è bollente, a tratti freddissima (e nei cattivi romanzi per lunghi tratti è effettivamente tanto tiepida quanto insulsa).
Il caldo e il freddo, l’emozione e il controllo devono imparare a convivere e a diventare ciascuno una risorsa per l’altro. Ci sono testi freddissimi che emozionano molto (si dice ad esempio: "è agghiacciante"), così come ci sono testi molto caldi che (gli scrittori lo sanno) sono costruiti a tavolino più o meno come si costruisce una nave in bottiglia.
Questa era una specie di premessa o una presa di posizione (ma su questi argomenti si tornerà più che spesso); adesso cominciamo.

Si comincia dall’inizio, anzi dall’incipit

Si comincia dall’inizio, ovviamente. L’inizio di un racconto è forse la parte più importante del racconto stesso. Bisogna considerare le cose dal punto di vista di chi legge. Le prime frasi di un racconto (o di un romanzo) contengono una quantità di promesse; impostano un tono; rivelano le scelte linguistiche fondamentali. Sono quasi il DNA del racconto (o romanzo): in forma sintetica c’è tutto. Proviamo a leggere alcuni inizi (alcuni incipit, come tecnicamente si chiamano).

I miei mali sono cominciati tutti alcuni mesi dopo il mio ritorno dalla prigionia in Germania, quasi che la terra materna, dopo tanto e così crudele distacco, mi rigettasse. Io sono nato il 12 marzo 1919 ad Avignone, in Francia; ma sono italiano e di genitori italiani, padre piemontese e madre veneta, nata nella campagna fra Padova e Treviso, in luoghi assai belli, ella mi ha sempre detto, che io non conosco. Oggi che scrivo ho già compiuto trentasei anni e i miei mali sono arrivati a un punto tale che non posso fare a meno di denunciarli. Scrivo, stando a casa mia, a Candia, nel Canavese, in provincia di Torino. Questa casa è fuori del paese, verso il piccolo lago di Candia; ma un poco spostata a sinistra, tra pese e lago, verso la collina; è una casa di campagna con un poco di orto, la sua loggia di mattoni rossi, il fienile e la stalla abbandonati, dove vivono in disordine alcune galline, due galli e una famiglia di conigli, quasi selvatici. Io non curo la terra né gli animali da cortile, perché sono un operaio di una fabbrica in città; di una fabbrica grande più della stessa città.
(Paolo Volponi, Memoriale)

Quante cose apprendiamo da questo incipit? Innanzitutto le coordinate spaziotemporali: sappiamo dove siamo e che siamo nel primo dopoguerra. Poi apprendiamo una quantità di cose materiali sul personaggio narratore: l’età, la condizione sociale piuttosto bassa (i genitori sono andati a lavorare in Francia), l’origine contadina, la prigionia o il lavoro forzato in Germania ecc. Ma apprendiamo anche, e fin dalle primissime parole, molte cose sul carattere del personaggio. L’espressione "i miei mali", così indeterminata e onnicomprensiva, ci fa pensare subito a un personaggio mentalmente turbato. Così anche la dichiarazione: "io non curo la terra perché sono un operaio", con il suo carattere di decisione eccessivamente radicale, di esagerata adesione al ruolo sociale di operaio, rafforza l’impressione. La frase: "una fabbrica grande più della stessa città" ci fa capire che il personaggio vive la fabbrica come luogo mitico e magico, e che quindi il suo senso di realtà fa acqua.
Si parla subito di rapporto con la terra. La terra materna (che a rigore materna non è, essendo lui nato ad Avignone) ha "quasi rigettato" il personaggio. D’altra parte la madre è nata in "luoghi assai belli"; la casa e il luogo sono descritti con una lingua materiale e amorosa. Qui sentiamo che c’è un contrasto, tanto più che questa terra bella e amata è il personaggio, nella frase sulla fabbrica, a rigettarla violentemente. Capiamo che questo sarà un contenuto importante della storia.
La lingua è apparentemente calma, con frasi ampie; è, si vede bene, non una lingua "parlata" ma una lingua volutamente alta e nobile benché molto semplice. Il personaggio narratore intende presentarsi meglio che può, e pertanto adotta questa lingua ineccepibile; con questa lingua si mette in una posizione di forza.
Infine, l’intenzione del testo. Apprendiamo che non stiamo per leggere una "storia" pura e semplice, ma una denuncia (notiamo, en passant, che la "denuncia" può essere considerata un genere letterario a parte). Quindi, in certo senso, non siamo esattamente noi i destinatari del testo: il vero destinatario (o i veri destinatari) è (sono) la persona (le persone) che ha (hanno) causato i "mali" del personaggio. Una pubblica denuncia non è pubblica se nessuno la legge; il compito che il personaggio ci assegna è di far diventare pubblica la denuncia con il solo atto di leggerla. Quindi troveremo non solo narrazione, ma anche argomentazione: il personaggio cercherà di tirarci dalla sua parte. Quindi, questo è importantissimo, noi dovremo cercare di leggere il testo anche con gli occhi dei nemici del personaggio: solo così potremo scoprire come veramente sono andate le cose.
Riassumendo: in questo incipit, non solo veniamo informati su alcuni dati materiali di partenza; non solo ci viene detto qualcosa di essenziale sul carattere del personaggio; non solo ci vengono presentati due temi fondamentali (terra madre/matrigna; campagna/fabbrica); ma anche veniamo istruiti su come dobbiamo leggere la storia. Questo è un incipit potentissimo (e Memoriale, tra parentesi, è uno dei romanzi più belli del secolo; è pubblicato nei Tascabili Einaudi).

Sul finire dell’estate di quell’anno eravamo in una casa in un villaggio che di là del fiume e della pianura guardava le montagne. Nel letto del fiume c’erano sassi e ciottoli, asciutti e bianchi sotto il sole, e l’acqua era limpida e guizzante e azzurra nei canali. Davanti alla casa passavano truppe e scendevano lungo la strada e la polvere che sollevavano copriva le foglie degli alberi. Anche i tronchi degli alberi erano polverosi e le foglie caddero presto quell’anno e si vedevano le truppe marciare lungo la strada e la polvere che si sollevava e le foglie che, mosse dal vento, cadevano e i soldati che marciavano e poi la strada nuda e bianca se non per le foglie.
(Hemingway, Addio alle armi)

Qui è tutto molto più indeterminato; non sappiamo ancora niente della vicenda, dell’esatta situazione eccetera. Tuttavia apprendiamo subito che, benché in prima persona, ci troviamo difronte a una storia "pura" (non una denuncia ecc.). Ma soprattutto veniamo immediatamente presi dal ritmo della prosa: pochissime virgole, molte "e", un ritmo breve e veloce. Capiamo subito che il senso principale del personaggio narratore è la vista. E capiamo anche che, nonostante l’apparente estremo realismo visivo, siamo a due passi dalla visionarietà. L’ultima frase riprende alcuni elementi delle frasi precedenti e li fa, per così dire, girare vorticosamente; per poi ripresentarci l’immagine della "strada nuda e bianca". Percepiamo subito la somiglianza tra questo procedimento e una struttura musicale (ad es. un crescendo nel quale si accumulano diversi strumenti a canone e per imitazione; che si interrompe di colpo lasciando il posto ad un accordo immobile, di note tenute). Quindi capiamo subito di aver che fare con un testo attentissimo ai valori ritmici e musicali, oltre che alla visibilità delle cose; in sostanza, un testo che sarà un esercizio di stile da cima a fondo (come in effetti è Addio alle armi, Oscar Mondadori). Quello che noi dobbiamo fare, come lettori, è lasciarci prendere e coinvolgere (Volponi, al contrario, mettendo in scena un personaggio narratore inattendibile ma che vuole convincerci di qualcosa, sollecita nel lettore un atteggiamento critico).

Gli altri esseri umani li trovai nella direzione opposta, in quanto non andai più all’odiato ginnasio, ma, ciò che fu la mia salvezza, a fare l’apprendista, cioè al mattino presto, contro ogni ragionevolezza, non andai più con il figlio del consigliere governativo lungo la Reichenhaller Strasse verso il centro della città, ma andai lungo la Rudolf-Biebl-Strasse verso la periferia con il garzone del fabbro che abitava nella casa accanto, e non passai più attraverso i giardini incolti e davanti alle artistiche ville per andare all’Alta scuola della borghesia e della piccola borghesia, ma passai davanti all’istituto dei ciechi e a quello dei sordomuti e sopra il terrapieno della ferrovia e attraverso i giardini al margine della città e accanto alle staccionate del campo sportivo vicino al manicomio di Lehen per andare all’Alta scuola dei reietti e dei poveri, all’Alta scuola dei pazzi e di quelli che sono dichiarati pazzi, nel quartiere di Scherzhauserfeld, in quello che è per antonomasia il quartiere degli orrori della città, fonte di quasi tutti i processi giudiziari di Salisburgo e nella cantina adibita a negozio di generi alimentari di Karl Podlaha, il quale era un essere umano distrutto e un sensibile temperamento viennese che sarebbe voluto diventare un musicista e invece era sempre rimasto un piccolo bottegaio.
(Thomas Bernhard, La cantina)

Anche questo incipit ci dice che del libro che leggeremo saranno importanti i valori ritmici e musicali, la sintassi, le virgole ecc.; anche qui abbiamo la precisa sensazione di aver che fare con una percezione alterata (ci viene anche detto: "contro ogni ragionevolezza"); solo che qui né ci viene chiesto (come nel primo esempio) di condividere o non condividere, né ci viene chiesto di lasciarci coinvolgere: questa lingua così strana ci rifiuta, è evidente. Mentre questa lingua ci invade noi sentiamo di doverci difendere. E’ innegabile un senso di disagio, o almeno di spiazzamento.
Abbiamo alcuni dati materiali: apprendiamo che il personaggio, figlio di famiglia borghese, pianta la scuola per andare a lavorare in un negozio di generi alimentari; e fa questo per odio e per irrisione verso la condizione borghese, senza tuttavia mostrare nessun sentimento positivo verso "gli altri esseri umani" che si incontrano "nella direzione opposta". Quindi abbiamo la sensazione di un’estrema acutezza dello sguardo: non uno sguardo visivo, come quello di Hemingway, ma uno sguardo che vede l’essenza delle cose (uno sguardo ontologico?). Ci chiediamo quindi: ce la farà, il giovanottino borghese, ad affrontare la direzione opposta? E abbiamo subito la sensazione che possa farcela, così come abbiamo la sensazione che farcela o non farcela non abbia molta importanza, tanto sia la vita borghese sia la vita "nella direzione opposta" è orripilante. Con questo, abbiamo tutto il contenuto ideologico del libro. Non sappiamo molto sulla vicenda futura, ma nei libri di Bernhard la vicenda non è la sostanza (La cantina, Adelphi).

Quattro incipit da proseguire

A questo punto, passiamo dalle parole ai fatti. Qui di seguito diamo quattro incipit (facili) di racconti. Invitiamo i lettori a tentare di proseguirne uno o due. La procedura più semplice è quella delle domande. Una volta letto l’incipit, domandiamoci: che informazioni mi dà questo incipit sull’ambiente, il tempo, l’ora del giorno, il numero dei personaggi, i loro caratteri, la situazione in corso ecc.? E poi domandiamoci: come è fatta la lingua di questo incipit, che tipo di frase adopera, che lessico, come mette le virgole, qual è il suo ritmo, è veloce o lenta ecc.? E infine domandiamoci: come si propone questo testo al lettore, quale atteggiamento provoca o richiede, a quale genere letterario appartiene, in quale modo va letto ecc.?
Una volta che avremo risposto (almeno approssimativamente) a queste domande, possiamo tornare all’incipit e, in tutta libertà, immaginare come prosegue la storia. Vi invitiamo a mandarci le vostre prosecuzioni. Le più interessanti (non è detto che saranno anche le più belle: un testo orribile può essere didatticamente interessante) saranno pubblicate e commentate nel prossimo Nautilus. (Comunque pubblicheremo tutti i testi ben fatti.)

1. NELL’UFFICIO POSTALE

L’uomo ringraziò.
- Si figuri, disse Rita. Non è niente.
- Non è così facile trovare una persona gentile, disse l’uomo.
- Sa, disse Rita, tante volte è la fatica.
- Mi rendo conto, disse l’uomo.
- Lei si immagina con quanti utenti abbiamo che fare ogni giorno, disse Rita.
- Mi immagino, disse l’uomo.
- Non sembra, disse Rita, ma è un lavoro faticoso.
L’uomo si voltò. Non c’era nessuno dietro di lui. L’ufficio era quasi deserto. Una signora anziana aveva ritirato la pensione, due sportelli più in là, e stava ricontando lentamente i soldi. Borbottava tra sé.
- Sa, disse Rita abbassando la voce.
L’uomo avvicinò il viso al divisorio trasparente.
- A volte, disse piano Rita annuendo verso la signora anziana, ci tocca fare anche le assistenti sociali.
- Mi immagino, disse l’uomo ridendo.
La signora anziana aveva finito di ricontare i suoi soldi. Cominciò a camminare verso la porta strascicando i piedi e borbottando. Entrò una ragazza con un fascio di raccomandate.
- La lascio al suo lavoro, disse l’uomo.
- A rivederla, disse Rita.
Nell’uscire l’uomo aspettò la signora anziana e le tenne aperta la porta. La signora non lo ringraziò nemmeno. Uscì sempre borbottando, il fascetto di banconote stretto in mano.
La ragazza posò il fascio di raccomandate sul ripiano dello sportello di Rita e cominciò a passargliele. Rita prese la prima raccomandata, la soppesò in mano, infilò il modulo grigio nell’affrancatrice, schiacciò 3.850 lire.
Fuori si sentì gridare.

2. LA CASA DI MICHELE

Michele abitava in una casa troppo grande per lui. La avevano abitata, in altri anni, sconosciuti parenti. Michele la aveva ereditata con tutto dentro, strapiena di mobili e cose. Volentieri aveva lasciato l’appartamento d’affitto per occuparla. All’inizio ne aveva usate solo poche stanze, cucina bagno camera da letto: come intimorito. Poi aveva cominciato ad esplorare. Tornava dall’ufficio alle cinque e mezza, sceglieva un mobile, lo apriva, lo svuotava, apriva tutte le scatole e scatolette, scuoteva i vestiti appesi, frugava le tasche. Trovò in un cassetto un album di fotografie in bianco e nero. Lo sfogliò e risfogliò. Poi staccò le fotografie e le appese tutte, con il nastro biadesivo, alla parete più libera del salotto. Così poteva vederle tutte insieme. Dalla parete nessuna faccia conosciuta lo guardava.

3. MORTE DI RICHESSE

Siete i benvenuti, signori. Speravo proprio che veniste. Ecco, entrate. Fate piano, per favore. Se volete togliervi i mantelli, prego. Un attimo, li porto di là. Ecco. Forse c’è qualcuno che non conoscete ma, chiedo scusa, preferisco non fare presentazioni. E’ meglio se non c’è rumore di sedie e di conversazione. Tutti siete qui per la stessa ragione, mi pare che questo basti. Ecco, da questa parte. Richesse è nella sua stanza ma non posso farvi entrare adesso, ci sono i medici. Credo che non staranno dentro a lungo. Hanno finito il loro lavoro e non servono più. Hanno fatto quello che potevano, credo. Ecco, sedete pure qui. D’altra parte Richesse aveva detto subito che non sarebbe servito. Ma voi sapete com’è fatto Richesse, ha voluto fare tutto come si conviene. Ha lasciato che lo visitassero, che lo palpassero, che lo auscultassero, che gli facessero tutto. Ha preso le medicine e ha fatto gli impacchi, come fosse stato davvero convinto che gli sarebbero serviti. L’ho perfino sentito dire a uno di loro che dopo gli impacchi si sentiva meglio. Naturalmente non è vero.

4. IL TELEFONO, LA TUA VOCE

Sei alla stazione di Bologna. Sei sola. Hai a tracolla da una parte la borsone con dentro tutto: i vestiti, la sveglia, i libri, i quaderni di appunti. Dall’altra parte hai la valigetta di pelle che ti fa da borsetta. Hai addosso il cappotto nero. Sull’intercity da Firenze c’era troppo caldo. Sei sudata sotto i vestiti. All’aperto sotto le pensiline è freddo. L’espresso per Venezia è tra ventidue minuti. Devi scendere a Monselice, tornare a casa. Di mercoledì. Sei scappata dall’appartamento in fretta. Dovrai trovare qualcosa per spiegare a casa. Hai storia moderna tra diciassette giorni. Se dirai che devi solo stare in pace forse non diranno niente. Devo solo stare in pace per studiare, non ci sono più lezioni. Prova a dirlo. Fai la faccia. Mamma, sono tornata a casa per studiare meglio. Devo solo stare in pace. Coccolami, preparami da mangiare, lasciami dormire. Passerò l’esame. Forse dovresti telefonare. Mancano ventuno minuti, puoi telefonare. Chi ne ha voglia. La scheda ce l’hai.

Qualcosa da leggere

Ultimamente si sono pubblicati, in Italia, moltissimi libri che parlano dello scrivere e del raccontare. Uno molto bello è Il mestiere di scrittore di John Gardner (Marietti, pp. 199, L. 20.000), provvisto di una prefazione di Raymond Carver che di Gardner fu allievo. E’ un libro americano e quindi parla dello "scrittore" in un maniera un po’ strana per noi del vecchio continente (esclusivamente come di una professione, appunto); comunque non è un manuale (questo è molto importante) ma un libro di riflessioni e consigli. E’ significativo che per Gardner siano quasi sinonime le espressioni "buona narrativa" e "narrativa di successo". Gardner pensa alla narrativa come a un intrattenimento intelligente, divertente e istruttivo:

La buona narrativa scatena un sogno vivido e ininterrotto nella mente del lettore. E’ "generosa", nel senso che è completa e autonoma: risponde, esplicitamente o implicitamente, a tutte le domande insensate che il lettore può fare. Non ci lascia in sospeso, a meno che la sua inconcludenza non sia giustificata dalla narrazione stessa. Non fa dei giochini inutilmente sottili, in cui la narrazione di storie si confonde con la costruzione di un puzzle. Non mette alla prova il lettore, esigendo da lui qualche particolare conoscenza prescindendo dalla quale gli avvenimenti non avrebbero senso. In breve cerca, senza compiacimenti, di convincere e di piacere. E’ significativa da un punto di vista intellettuale e emotivo. E’ elegante e funzionale: vale a dire, non usa un numero di scene, personaggi, particolari fisici e accorgimenti tecnici maggiore di quello che gli serve per raggiungere il suo effetto. Ha un disegno. Ci dà lo stesso piacere particolare che traiamo dall’assistere, con occhi pieni di apprezzamento e di stupore, a una performance. In altri termini, osservando ciò che lo scrittore è riuscito a fare, ci sentiamo appagati: "Come lo fa sembrare facile!", esclamiamo, consapevoli di difficoltà egregiamente superate. E infine una storia riuscita dal punto di vista estetico racchiuderà in sé un’intuizione della singolarità dell’esistenza, per quanto prosaiche siano le sue componenti. (p. 61)

Tanto per fare un paragone, vediamo che cosa scrive Giampaolo Rugarli nel suo Manuale del romanziere (Anabasi, pp. 254, L. 30.000), che in realtà del manuale non ha assolutamente nulla (ed è, tanto per esser chiari, un libro "ispirato dal fastidio e dalla noia che le scuole di scrittura creativa suscitano in me", dichiara Rugarli).

Forse il romanzo è sogno ad occhi aperti, ossia parente stretto del sogno a occhi chiusi; ponte lanciato verso un continente che, pur spettando all’uomo, non è stato ancora esplorato: in altri termini il romanzo completerebbe la stagione delle grandi scoperte, puntando la prua verso il chiuso dell’anima anzi che verso le Americhe ("tutti i romanzi di tutti i tempi indagano l’enigma dell’io" avverte Kundera). Probabilmente ogni romanzo è la rappresentazione semplificata di un sistema, e dunque è un modello, ancorché sui generis. I modelli partono dal conosciuto o dal conoscibile verso l’ignoto e, attraverso un gioco combinatorio di variabili e di costanti, approdano a una o più ipotesi; spesso i risultati non sono attendibili e costringono a complesse operazioni di verifica, di aggiustamento e di taratura. In nessun caso si perviene a una certezza: il massimo che può ottenersi è di sfoltire la ridda delle congetture, di passare dalla tenebra alla penombra.
Ma questo itinerario non è lo stesso che viene compiuto dai romanzi? Ciò che viene espresso narrativamente si colloca in una zona indistinta, di pertinenza del sentimento meglio che della ragione, e si muove come in una esplorazione, al tempo in cui la terra custodiva il suo mistero. Il romanzo lenisce l’ansia di conoscere e, insieme, comunica palpiti, ansie, turbamenti, arricchisce o almeno completa la nostra vita emotiva.
Il romanzo è sogno a occhi aperti, ma pure metafora della nostra vita o della vita in generale: può aiutare a esprimere in modo obliquo idee che, formulate frontalmente, risulterebbero incomprensibili o controvertibili o inaccettabili. Può insinuare un dubbio. Può educare, può ammaestrare, sfrondando i due verbi da ogni implicazione autoritaria. (pp. 21-22)

La parola chiave sembra essere la stessa: il sogno. Tuttavia è chiara la diversità di approccio: Gardner parla della narrativa in maniera pratica, ossia morale; Rugarli adotta un curioso linguaggio un po’ scientifico e un po’ evocativo. Per Gardner la chiarezza è un requisito primario; Rugarli sembra veleggiare verso l’esplorazione del caos.
Qui abbiamo difronte due ben diverse idee sul raccontare. Che cosa ne pensate? Usate l’E-mail.

Nel prossimo Nautilus

Il corso di scrittura narrativa a puntate si occuperà del punto di vista. Che differenza c’è tra scrivere in prima persona, in terza o addirittura in seconda; che cos’è un narratore onnisciente e che cos’è un narratore inattendibile; eccetera eccetera.
Saranno commentati gli esercizi proposti in questo numero e se ne proporranno di nuovi; si aprirà l’eventuale posta.
Si proporrà una discussione sul tema: che cosa è realismo?
Si segnalerà qualche libro interessante.