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LO SCIVOLO

Un racconto di Diego De Silva

La palla ha un colore pastello che somiglia alla sabbia. E’ grande la metà del pallone con cui giocano i ragazzini che vanno a scuola e molto più leggera. Ha già due anni, e addosso le rughe di profondi scarabocchi di penna. Miro la insegue sul balcone quasi di corsa, ogni tanto si ferma per riprendere fiato e s’incanta a guardarla camminare da sé. La palla lo supera dispettosa, sembra che conosca la geometria del balcone quando rimbalza sulla ringhiera e scompare dietro l’angolo retto del muro. Miro respira profondamente e si prepara a ricominciare.
E’ piccolo Miro, ma non si stanca presto della stessa cosa. In questo è un po’ diverso dai bambini della sua età; quando gioca s’incammina, incontra tante strade e le prende tutte. Poi ha qualcosa che di solito è dei grandi, una voce bellissima. Se lo senti parlare devi girarti, e provi un curioso tipo di disagio quando ti accorgi di essere stato attratto da lui.
Il balcone è finito, la palla ha raggiunto l’ultimo lato della ringhiera. Miro si affretta ma poi capisce che ha vinto lei, e subito rallenta. E’ un po’ offeso. La palla s’imbatte nel traguardo e viene spinta all’indietro, salta due volte sullo stesso punto, poi va a finire fra due piante e lì s’incanta con qualche stento. Miro prende subito un’aria soddisfatta. E’ nascondino, adesso. Di più, finalmente ha funzionato la trappola che aveva sistemato fra le piante con tanta pazienza, ma quanto è durata l’attesa. Osserva la scena ad occhi stretti, apre le braccia per contenere l’ampiezza del balcone e prepararsi ad un ultimo tentativo di fuga, poi, un sosta ogni passo, si avvia. E’ un po’ emozionato. E se fosse un nascondiglio? Vorrebbe fermarsi a decidere ma non c’è tempo, deve catturarla o non ci sarà un’altra volta.
Dov’è la palla? Miro la vuole e la detesta, la cerca e l’aspetta, quasi quasi pensa che esista. In fondo ha ragione, visto che ci gioca insieme. Finalmente si affaccia tra le piante, le piomba addosso singhiozzando, l’abbraccia: poi l’annusa, che il gioco è finito. Sa di dolce l’odore della gomma.
C’è un po’ di vento, e fa colare il naso. Quando mai un bambino ha un fazzoletto. Si arrangia con le mani e le maniche, ma quante manovre ci vogliono. Poteva pensarci prima, adesso qualcuno potrebbe averlo già visto, mannaggia. Ficca la testa nel collo e si guarda intorno come avesse appena rubato; ad una ad una scruta le finestre che lo circondano, e si prepara a scappare dentro prima che qualche estraneo possa fare in tempo a ricordarsi di lui.
Ed è allora che, sforzandosi di guardare il più possibile, vede qualcosa che non riesce a capire. Sul palazzo di fronte c’è un uomo, seduto sul bordo del tetto.
E’ rimasto immobile Miro, e con gli occhi pieni. Non pensa nemmeno, soltanto guarda; non ricorda neanche più la palla che ha ancora in braccio. Il respiro è già più regolare. Adesso il vento butta più forte, ma lui non ci fa caso. L’uomo sul tetto si comporta come se niente fosse, ogni tanto muove la testa e si ripara dal vento sollevandosi il collo della giacca. Non è vicinissimo, però Miro ce l’ha proprio di fronte, e ne approfitta come fosse capitato davanti alla gabbia di un animale.
E’ piuttosto giovane, magro, abbastanza alto, una persona ordinaria, ha vestiti dignitosi. Non sembra affatto preoccupato dei sette piani che gli stanno sotto i piedi. Non guarda da nessuna parte, però si capisce che sa dov’è e che cosa gli succede intorno. Non c’è decisione, non c’è paura, e nemmeno incertezza in quegli occhi. Non c’è niente.
Miro ha lasciato andare la palla. Si è nascosto con la faccia tra le sbarre della ringhiera, e lo guarda. Gli torna in mente una vecchia comica dove c’era un tipo curioso che non cambiava mai espressione. Gli bombardavano anche la casa, a un certo punto, e lui niente, sempre la stessa faccia, non erano mai fatti suoi. Tante volte, in camera sua, Miro si è messo sull’orlo del precipizio, con la schiena appiccicata al muro e la testa rivolta al soffitto per non guardare in basso. Come si sentirà adesso quel signore, che il vuoto sotto i piedi ce l’ha davvero?
Il vento è meno forte, e fa aumentare il silenzio.
"Senti - smette di resistere Miro - ma perché stai lì sopra, non hai paura?"
Adesso l’aria è ferma, la voce di Miro scorre fra i palazzi senza disperdersi; soltanto, arriva dall’altra parte con qualche attimo di ritardo. L’uomo sul tetto non si è nemmeno girato, ma ha sentito perfettamente. Miro sta cominciando a ripetere la domanda, quando quello gli si rivolta contro pieno di violenza, come un cane che ti afferra all’improvviso con un morso perché non voleva la tua carezza.
"Non sono fatti tuoi, va’ dentro e sta’ zitto!"
Le labbra di Miro si socchiudono lentamente. Un calore fortissimo gli piomba sul viso chissà da dove e gli sale fin dove cominciano i capelli. I pugni che stringevano le sbarre della ringhiera perdono la stretta e si aprono. Ha voglia di nascondersi. Maledice la sua iniziativa e rimpiange gli attimi appena passati in cui stava giocando con la sua palla e si sentiva contento di così poco. Il balcone è diventato già nemico, sa che da oggi avrà sempre paura di uscire fuori a giocare, che ogni volta ricorderà.
Non piange, trema solo un po’. Sta fermo e lo guarda, chiedendosi che cosa può averlo fatto arrabbiare tanto. Anche l’uomo sul tetto lo fissa, e non parla. Non ha nessuna espressione, come prima del morso. Ha smesso di stringere, ma continua a scacciarlo. Si confrontano, ma dura poco. Il bambino non regge, si arrende e fa per rientrare. Forse dimenticherà questo brutto giorno, forse gli resterà nascosto dentro, e ogni tanto uscirà fuori all’improvviso a rovinargli qualche momento felice.
L’uomo sul tetto gli ha tolto gli occhi di dosso e si sta già dimenticando di lui, quando il suo sguardo incontra il colore sbiadito della palla, che gli fa capolino dal balcone. Ha un’aria spiritosa, sembra vera, come la vedeva Miro pochi minuti fa. Chissà come, qualcosa succede. Una schiarita. Come quando in un pomeriggio smorto, da un appartamento in lontananza senti un brandello di musica che ti fa ricordare una volta in cui sei stato felice. E senza rendertene conto, sorridi. Dura solo un attimo, ma è molto, molto più forte di qualsiasi sconfitta. Non trovi risposte, perché non ce ne sono, e nemmeno ricominci a sperare, perché non ricordi più come si fa, eppure il dolore si calma. Lo inghiotti, ti viene naturale, era così difficile vivere soltanto un attimo prima. A volte ci vogliono degli anni perché succeda, ma quando capita è proprio un attimo. E ricominci ad accettare la vita.
L’uomo sul tetto torna indietro. Cerca il bambino. E’ ancora lì.
"Bambino, senti." Adesso la sua voce vuol chiedere.
Miro si gira immediatamente. E’ felice.
"Quanti anni hai?"
Il bambino alza insieme le braccia fin sopra la testa, forma un tre con una mano e contemporaneamente solleva il mignolo dell’altra; intanto chiude il pollice precedente, poi si ferma perplesso a guardare le sue piccole dita rimaste sollevate alla rinfusa. L’uomo sul tetto ride. E Miro appresso.
"Ma perché stai lassù?", ripete Miro, e ripulisce il dolore di prima.
"E tu perché lo vuoi sapere?", fa lui, mentre il sorriso gli si assorbe sulla bocca.
"Perché ho paura."
"Paura di che?"
"Che cadi."
L’uomo sul tetto non risponde. Gli torna il vuoto in faccia. Poi riprende a parlare, e gli scompare di nuovo.
"Ma io non cado, sai, sono bravo. Ogni mattina vengo qui a fare lo scivolo."
Miro lo guarda insospettito. Non ha ancora deciso se credergli o no, però vuol continuare a sentire.
"Vedi, salgo sul camino e poi scivolo giù, fino alla grondaia. Lo so fare, non ho paura. Non sono mai caduto."
Miro è rimasto in silenzio.
"Non ci credi? Vuoi vedere?"
"No, no, ti credo... - alza un po’ la voce Miro e poi l’abbassa - Però scendi di là, per piacere."
"Te l’ho detto che non cado. Non ti preoccupare. E’ bella la tua voce, sai?"
Miro si è sentito fare tante volte questo complimento, ma non lo capisce. Però gli sorride.
"E anche tu sei un bel bambino."
Miro piega la appena testa verso la spalla e si morde il labbro di sopra. Non gli sembra vero di star parlando con lui. Nei complimenti sente le sue scuse, sono come un regalo. Vorrebbe dirgli che non c’è bisogno, ma non sa come. Ha così fretta di uscire dall’imbarazzo che torna sull’argomento che voleva evitare.
"Tu sei grande, perché fai lo scivolo?"
"Era il mio gioco preferito quand’ero piccolo come te."
"Allora lo posso fare pure io?"
"Oh no, tu no. E’ pericoloso."
Miro smette subito di credergli, ma nell’attimo stesso in cui indovina la sua bugia si accorge di aver paura di lasciarlo solo.
"Ti piace la mia palla?", mente, cercando, senza sapere quel che fa, di prendere tempo.
"Sì, è proprio bella. Scommetto che ci sei molto affezionato."
"Sì, e ho tanti altri giocattoli, li vuoi vedere?", risponde Miro, e stavolta si vede chiaramente che finge. L’uomo sul tetto pensa a una scusa per rientrare in casa e scappare da lui. E invece questa è l’ultima cosa che il bambino vorrebbe.
"Va bene, valli a prendere se vuoi."
Miro lo guarda e non si muove. Sente che può impedirgli di cadere se rimane con lui.
"Vai, ti aspetto", ripete affettuoso l’uomo rinunciando definitivamente a Miro, e dentro di sé lo saluta con una gratitudine che si sorprende di riuscire ancora a provare.
Il bambino non sa decidersi. Si è intrappolato da solo. Hai capito male, vorrebbe dirgli, non voglio lasciarti, non cercavo una scusa. Ma è prigioniero dell’equivoco, e già caldo di lacrime.
L’uomo sul tetto lo guarda cercando di spiegarsi la sua incertezza. Miro sente addosso i suoi occhi che lo giudicano, non regge lo sforzo e libera la paura che voleva nascondere. Si aggrappa alla ringhiera, e batte il piede destro per terra.
"Scendi dal tetto, lo vedi com’è alto, pe’ piacere, scendi...", dice fra i denti, e piange.
L’uomo sul tetto stringe gli occhi e butta la testa indietro. Guarda il bambino che comincia a disperarsi e lo lascia fare, senza riuscire a produrre una reazione qualsiasi. Poi si accorge del danno che ha causato, e perde la sua compostezza. Tende le braccia verso Miro e addolcisce la voce.
"Calmati, te l’ho detto che non cado", dice quasi sussurrando. "Lo scivolo, non ti ricordi? Lo scivolo!"
"Non è vero, non è vero, scendi dal tetto, non cadere, non cadere!", aumenta Miro.
L’uomo sul tetto non riesce a fermarlo. Miro trova il suo dolore, glielo tira fuori con le mani, e comincia a farlo a pezzi. Il sereno che c’era prima è passato, tutto precipita rapidamente. L’uomo si alza in piedi per tentare un rimedio, ma è peggio. Il bambino comincia a gridare. Le sue urla sono come pugnalate. Gli ha fatto del male, ora farebbe qualsiasi cosa per lui, se fosse capace di una cosa qualsiasi. Ma non reagisce, non parla, sente soltanto il dolore che gli cade addosso a fitte, calpestato dal bambino che ancora non si stanca di combattere. "Smettila, smettila!", comincia a urlare anche lui.
"Scendi dal tetto, non cadere, non cadere...", singhiozza il bambino.
"Smettila, ti ho detto basta! Lasciami in pace! Non ti ho chiamato io!"
Lui, che poco fa l’ha aggredito, adesso vorrebbe essere sul balcone e prenderlo in braccio, per asciugargli le lacrime con la bocca e le mani. Ma è tardi, è dall’altra parte, poi nemmeno si conoscono. Lo scaccia ancora, è l’unica cosa che riesce a fare per lui. Il bambino è disperato, e stanco.
Qualcuno si affaccia dalle finestre intorno.

Che bello che è Miro. Continua a piangere e tira calci in aria, ora che la mamma lo ha avvinghiato sotto le ascelle e lo trascina dentro casa, mentre fissa l’estraneo che ha fatto tanto male al suo bambino.
L’uomo sul tetto vorrebbe ringraziarla di essere arrivata, ora il dolore non batte più come prima, ora il bambino è al sicuro.

Quanto rumore c’è adesso. Una sirena, forse due, o tre, chissà, quante teste fuori dalle finestre. Che brutto rumore fa la gente quando parla tutta insieme. Com’è incapace di dignità quando vuole la prima fila alla tragedia degli altri.
Ora Miro è in camera sua, la mamma gli ha chiuso la porta. Con tutti i suoi giocattoli intorno, e le strisce delle lacrime asciugate sulle guance. No, non giocherà oggi, non si farà ingannare dai colori dei suoi giocattoli. Perché mamma mi ha fatto questo?
E’ passato un po’ di tempo. Fuori c’è ancora tanto rumore, le sirene ogni tanto s’incantano e poi riprendono. Anche miro si è incantato, di stanchezza. Stava quasi per addormentarsi quando ha raccolto da terra la sua trottola e si è seduto sul tappeto con lei. La tocca, ne segue la sagoma partendo dal basso, fino al pomello. Lo schiaccia e lei parte, goffa e barcollante.
Fuori della stanza, il rumore finisce improvvisamente. Miro viene travolto dal silenzio che dura solo pochi attimi, lunghissimi. Raccoglie la trottola che ancora gira, e la stringe a sé. Il rumore riprende. Suonano le sirene, le voci si levano verso l’alto, un piano dopo l’altro arrivano fino alla sua casa ed entrano da ogni finestra. Nella stanza no, lì non ce la fanno, la porta è chiusa.
C’è una macchia enorme per terra, e il marciapiede sporco.
Miro è rimasto immobile, quasi senza respiro. La sua mano si è incantata sul pomello della trottola. Cerca di distinguere i suoni che, trovata la porta chiusa, stanno tornando indietro. Tutto è ovattato.
Tanti pensieri, tutti insieme lo attraversano. La sua casa, mamma, gli amichetti, i quaderni e i pastelli, la merenda. E poi la scuola, la cartella, i cuginetti, il balcone, la gara, la trappola. L’uomo sul tetto.
La sua faccia prende l’espressione di un mucchio di anni.
Poi la sua mano si accorge all’improvviso della trottola.
E riprende a giocare.

Diego De Silva è nato nel 1964 a Napoli. Abita a Salerno. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in volumi collettivi e in riviste letterarie. Un suo romanzo, La donna di scorta, è stato finalista nell’edizione 1995 del Premio Montblanc ed è in lettura presso alcune case editrici.

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Una poesia di Claudio Damiani

Alla mattina, quando uscivo,
l’aria era piena di luce.
Le galline avevano fatto l’uovo.
Io prendevo la mia biciclettina.
Vestirmi in fretta, per uscire.
La notte era stata nera.
Gli eucalipti stavano dritti.
L’aria era azzurra, bianca.
Le fronde frusciavano sempre.
Le case stavano quiete.
Davanti alla casa di Guerra
io vedevo Tamara.
O la incontravo per strada.
Lei, al vedermi, scodinzolava.
Io l’accarezzavo, lei mi guardava.
L’accarezzavo ed ecco
non riuscivo più a andare via.
Staccarmi da lei non era possibile.
Lei mi guardava con il suo sguardo triste.
I suoi occhi davanti ai miei.
Non potevo più andare via.


Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo in Puglia e dall’età di cinque anni vive a Roma. E’ stato tra i fondatori della rivista Braci (1980-1984). Sue poesie sono apparse nelle riviste Prato pagano, Nuovi argomenti, Poesia. Un suo testo teatrale, Il rapimento di Proserpina, è stato messo in scena a Roma nel 1986. Ha pubblicato le plaquette Fraturno (edizioni Abete, Roma, 1987) e La mia casa (Galleria Pegaso Editore, Forte dei Marmi, 1994). La raccolta "La via a Fraturno", inclusa in La mia casa, è stata pubblicata anche in Poesia contemporanea: secondo quaderno italiano, Guerini e associati, Milano, 1992. La poesia che pubblichiamo è tratta da La mia casa, p. 37.

"Claudio Damiani [è] un poeta che fin dall’inizio della sua carriera, databile dalla fine degli anni settanta, cerca e modula la sua voce, la sua lingua con la semplice solennità di un sacerdote che battezzi l’unico luogo sulla terra dove egli possa abitare. Una lingua così disarmata, così apertamente rinunciataria nei confronti dell’armamentario del poetico tradizionale o anti-tradizionale, resoci consueto da cent’anni di Novecento, è quasi uno scandalo, può sembrare una provocazione che ancora oggi innesca reazioni fortemente contrastanti fra loro." (Paolo Febbraro, in Galleria, a. 44, n. 3).

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Pulp oggi, quale domani? Il caso italiano
di Giulio Mozzi

L'anno del pulp - Gli interventi di Giulio Ferroni e del Gruppo 63 - Un tentativo di definire il pulp - «Il pulp in letteratura», un incontro a Venezia organizzato dall'associazione Walter Tobagi

L'anno del pulp. Per la narrativa italiana il 1996 è stato, così si dice, l'anno del pulp. Durante la primavera e l'estate le cosiddette pagine culturali dei quotidiani e delle riviste illustrate ne hanno parlato a iosa, sostanzialmente dicendo: c'è una nuova anzi nuovissima generazione di narratori; il loro riferimento culturale è il film Pulp Fiction di Quentin Tarantino; raccontano di orrori metropolitani con tanto sangue, liquidi organici vari, superviolenza ovunque e così via; oltre che pulp sono trash e splatter; seppelliscono il passato con uno sputo (catarroso); sono cattivi anzi cattivissimi, nonostante l'aria angelica che si danno nelle fotografie con occhi dolci e gattoni a pelo lungo; la loro morale, se ne hanno una, è il cinismo; sanno di essere, come scrittori, pura merce; e ne godono; e chi più ne ha più ne metta.

I campioni di questa nuova ondata sarebbero: Aldo Nove autore di Woobinda e altre storie senza lieto fine, Castelvecchi; Tiziano Scarpa autore di Occhi sulla Graticola, Einaudi; Nicolò Ammaniti autore di Fango, Mondadori; Giuseppe Caliceti autore di Fonderia Italghisa, Marsilio; e, un po' meno citata, Isabella Santacroce autrice di Fluo, Castelvecchi.

L'intervento di Giulio Ferroni. La discussione si è riscaldata all'inizio di maggio dopo un pesante intervento anti-pulp da parte di Giulio Ferroni (docente di letteratura italiana alla Sapienza di Roma; autore di una fortunata Storia della letteratura italiana per le scuole [4 voll., Einaudi] e del recente saggio Dopo la fine: sulla condizione postuma della letteratura [Einaudi, pp. 199, L. 34.000]). Nel Corriere della Sera del 30 aprile Ferroni scriveva:

Nel consumo culturale continua ad imperversare, anche se in modo sempre più stanco, il mito della trasgressione: la mentalità diffusa e il chiacchiericcio intellettuale sembrano pretendere che le forme artistiche si pongano come trasgressive, chiedono a chi le esercita di essere trasgressivo o scomodo. Il cinema e la televisione diffondono modi di rappresentazione e di comportamento basati sulla trasgressione, mettendo in primo piano il sesso, la violenza, il desiderio rivolto verso oggetti tradizionalmente protetti e "proibiti", l'esibizione e la visione di ambiti della vita e dell'esperienza un tempo "riservati", custoditi da qualche pudore. La trasgressione si collega in realtà dalla velocità della comunicazione contemporanea e a quella ricerca di effetto immediato, di turbamento del destinatario, che costituisce il principio su cui si basano i media e che trova la sua manifestazione esemplare nella pubblicità.

Nella narrativa, giovane e meno giovane, sembrano oggi molto diffusi dei generici modi "trasgressivi": una letteratura che si sente alle corde rispetto a forme culturali più veloci e più "visibili", sembra potersi fare strada solo con la provocazione e con l'eccesso, immergendosi in deformazioni, poltiglie, cattiverie di tutti i tipi, manipolando il sesso in tutte le forme e le scomposizioni possibili. Sono cose con cui la letteratura ha sempre commerciato. Ma ora si ha l'impressione che queste trasgressioni si riducano alla conformistica riproduzione di un imperativo posto dai media, a giochi di plastica e polistirolo, trascrizioni da pulp fiction: atti con cui lo scrittore sottoscrive la nullificazione dell'esperienza, ratifica la perdita di ogni significato e di ogni terreno "civile" e condiviso, si piega al dominio dell'effetto pubblicitario. In questo gioco alla trasgressione si consumano qualità eccezionali, intelligenze e talenti che fuggono dal raccogliersi dentro di sé, credendo di affidarsi al vortice della comunicazione, alla scena indiavolata del presente.

Gli interventi del Gruppo 63. Alla posizione di Ferroni, dichiaratamente conservatrice (e che si ritrova espressa più lungamente nel capitolo "Per un'ecologia letteraria", conclusivo di Dopo la fine), si sono velocemente opposti gli organizzatori dell'annuale incontro "RicercarE" di Reggio Emilia (10-12 maggio), ossia i cosiddetti ex del Gruppo 63 o ex Neoavanguardisti: Nanni Balestrini, Renato Barilli, Guido Guglielmi, Edoardo Sanguineti sono intervenuti a più riprese.

Nanni Balestrini: Ferroni sostiene un'ipotesi critica assurda. Esistono dei nuovi, bravissimi narratori: Brizzi, Ballestra, Culicchia, Scarpa, Ammaniti. Il loro merito è d'inventare un linguaggio, che può anche esprimersi in termini violenti come quello di Ammaniti. Ma questa prosa non nasce negli uffici o tra le quattro pareti di un appartamento, bensì descrive una realtà tremenda, aggressiva proprio come quella in cui viviamo. [La Stampa, 4.5.96] Edoardo Sanguineti: La rivolta anarchica è il vero valore del secolo. I migliori frutti del Novecento, in tutti i campi, da quello politico a quello letterario-filosofico, hanno origine da una trasgressione rispetto all'esistente. Il nuovo genere letterario "letteratura giovanile", nato negli ultimi anni, e cioè una letteratura non solo scritta da giovani ma che parla anche dei giovani, del loro mondo del rock, della tv, dei computer, è anch'essa trasgressiva. Per anni ho avuto l'impressione che gli ultimi racconti e romanzi validi li avessero prodotti Manganelli, Moravia, Arbasino, Calvino. Le generazioni successive, Tabucchi o la Tamaro o Del Giudice, non mi sono sembrate degne d'attenzione. Finalmente è apparsa sulla scena letteraria una generazione di tutto rispetto, cioè Brizzi, Ballestra, Campo, Culicchia. Bravissimi Caliceti e Scarpa. [La Stampa, 4.5.96] Renato Barilli: Il compito di ogni narrativa che si rispetti [è] portarsi al di là del noto, frugare in nuovi terreni di caccia. Beninteso, è possibile farlo in modi freddi, cauti, o invece virulenti, carichi all'eccesso: due vie che non si escludono, non implicano che l'una condanni l'altra. Si pensi ai cosiddetti "nuovi romanzieri" emersi negli anni Ottanta, tesi tra la polarità rappresentata da Andrea de Carlo e da Aldo Busi. Certo, statisticamente oggi prevalgono i trasgressivi "caldi", virulenti, portati a praticare un qualche manierismo; ma l'intera ricerca artistico letteraria è sempre questione di maniere, di scelte stilistiche; non si può pretendere da essa la medietà, lo specchio docile e conforme. Per questo sulla ribalta internazionale si è recuperato il linguaggio provocatoriamente basso di Céline, rispetto alla prosa composta e linguisticamente ineccepibile di Proust. Che la vita abbia subito un'accelerazione, è sotto gli occhi di tutti, e allora perché gli scrittori giovani dovrebbero "rallentare"? Come pretendere che i nuovi autori rientrino in una grammatica o in un lessico sempre più ossificati e lontani dall'attualità? [Corriere della Sera, 7.5.96]

Il dibattito è poi proseguito a lungo, tutto sommato senza vera discussione, qualche parola pesante e successivi ribadimenti delle posizioni. Curiosamente, solo buoni ultimi sono intervenuti (o hanno avuto lo spazio per intervenire) i diretti interessati: gli scrittori. Un seminario tra scrittori allestito in tutta fretta da Alessandro Baricco presso la Scuola Holden di Torino (24-26 maggio) ha avuto probabilmente meno risalto di quello che meritava; il confronto tra scrittori è ripartito in luglio con alcuni interventi su Tuttolibri (rilanciato da Mauro Covacich, la cui posizione si trova espressa più avanti).

Una definizione del pulp. Nel frattempo la più precisa e circostanziata definizione del "genere pulp" (ossia dell'oggetto di cui si sta parlando) è arrivata dal critico Fulvio Panzeri (curatore, tra l'altro, di un'antologia di nuovi narratori: I nuovi selvaggi, Guaraldi):

I narratori realmente "pulp" sono due: Aldo Nove (...) e Nicolò Ammaniti (...). Qui l'assenza della realtà diventa orrore, anche perché, soprattutto in Aldo Nove, ogni limite, anche morale, è superato. La degenerazione di un tessuto non è un gioco, ma adombra dietro di sé una tragedia, quella che i personaggi, pubblicamente o televisivamente presenti di Aldo Nove, sembrano nascondere nell'anima rubata dallo schermo televisivo. Che è poi anche una realtà raccontata da Ammaniti, anche se non così lucidamente evidente. I linguaggi qui sono estremamente liberi, ma non gergali: la realtà tragicomica e delirante presenta l'impossibilità ad abbandonare una condizione da "schermo televisivo". Non si vive più davanti allo schermo, ma la realtà ha assunto la dimensione stessa dello schermo. E queste scritture sono a collage, frammenti di storie, spesso interrotte, immagini frammentate, da cui è assente l'esperienza della "naturalità". Non c'è cielo, non c'è terra in questi paesaggi o se vengono assunte sono solo nell'ottica di una ripresa cinematografica. Questa cancellazione avviene in quanto il corpo non assume più la reale consistenza, ma diventa parte, nella sua costruzione artificiale e quasi pubblicitariamente definita, di un "non-luogo" imprecisato e chiuso, come identificazione di una carcerazione tra pareti, dove solo lo schermo nella sua freddezza statica origina gli spazi e contemporaneamente li cancella. Non c'è più dimensione morale, ma solo un impulso ad agire, senza condizioni, senza convinzioni. Prospetticamente osservando un vuoto, senza averne coscienza. [Avvenire, 10.5.96]

Il pulp in letteratura: un incontro a Venezia. L'associazione culturale Walter Tobagi ha invitato il 13 agosto a Venezia (Forte Marghera), per discutere su Il pulp in letteratura, alcuni giovani scrittori ufficialmente pulp e altri ufficialmente non-pulp: Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Roberto Ferrucci, Romolo Bugaro, Mauro Covacich e Giulio Mozzi. Questo il sugo degli interventi.

Tiziano Scarpa si è lanciato in un'avventurosa interpretazione di Pulp Fiction. Nel film c'è una scena ricorrente: per tre volte John Travolta va al cesso e legge un libro seduto sulla tazza, e per tre volte quando esce trova che fuori è cambiato tutto: c'è una sparatoria in corso, oppure la ragazza che lui deve accudire si è fatta un'overdose, oppure c'è un killer che l'aspetta (e l'ammazza). In Pulp Fiction quindi il legger libri: a) è un'attività che fa cagare; b) è pericoloso e fa morire. Il pulp uccide la letteratura seria. Il fatto è, ha proseguito Scarpa, che oggi lo scrittore non si confronta solo con il linguaggio puro, ma ha che fare con icone, sagome, "miti", oggetti che vengono ficcati nella coscienza (e nel linguaggio) di tutti, volenti o nolenti. Quindi, nel cercare una lingua propria, lo scrittore deve fare i conti anche con queste "icone"; non ha senso limitarsi a ignorarle. E difatti, ha concluso Scarpa, in tutti i lavori degli scrittori presenti si può trovare del pulp: Nove a parte, Ferrucci racconta in Terra rossa (Transeuropa) una storia d'amore in parallelo con le vicende (lette su Novella 2000 e Eva Express) di Bjorn Borg e Loredana Berté; Covacich in Colpo di lama (Neri Pozza) offre come co-protagonista un barbone che fa collezione di spazzatura; in alcuni racconti di Indianapolis (Transeuropa) Bugaro presenta un universo di piccoli delinquenti comuni che estraggono i loro modelli dal cinema e dalla tv; Mozzi in La felicità terrena (Einaudi) costruisce un racconto su misura per su un'icona: Paperoga, cugino sfigato di Paperino. Aldo Nove ha tentato una universalizzazione del pulp, rintracciando elementi pulp nella letteratura di ogni tempo. Achille e Patroclo in fondo cos'erano, se non dei bestioni capaci solo di appetiti elementari e di sfasciare tutto? E da allora ai giorni nostri il pulp impera, ha sostenuto Nove, fino ai due capolavori pulp (o trash, bisognerebbe discuterne) del Novecento: Socialista di Dio di Sergio Zavoli e Visti da vicino: parte prima di Giulio Andreotti (soprattutto il pezzo su "come conobbi Milva"). Ridendo e scherzando, Nove ha svuotato di senso la parola "pulp", mostrandone l'inconsistenza e l'inutilità come categoria critica. Ci hanno messo addosso l'etichetta di narratori pulp, ha detto Nove, e volentieri ce la siamo presa; tanto, una vale l'altra; non scriviamo certo per l'eternità, oggi abbiamo avuto i nostri quindici minuti di celebrità (come diceva Andy Warhol), tra quindici minuti li avrà qualcun altro. Abbiamo giocato, ci siamo divertiti, è anche bello che possa giocare e divertirsi qualcun altro; lasciamo volentieri il posto. La messa in scena della violenza nel pulp, ha sostenuto Mauro Covacich, è talmente esagerata e grottesca che fa solo ridere. Non produce cambiamenti nella coscienza del lettore: si ride, e si passa oltre. Se si mette in scena la violenza, allora lo si faccia per smascherarla; la messa in scena della violenza senza smascheramento ma per puro divertimento diventa cattiveria da salotto del tutto priva di contenuto etico. E comunque non è credibile la scrittura di puro divertimento: noi tutti, ha detto Covacich, dedichiamo tempo e concentrazione alla scrittura, ne facciamo la cosa più importante della nostra vita: forse c'è un rischio di deresponsabilizzazione in questa insistita sottovalutazione della scrittura, della letteratura, della durata nel tempo ecc. Giulio Mozzi ha azzardato una definizione di pulp come trattamento parodistico di generi letterari popolari: lo smascheramento della violenza dovrebbe avvenire proprio attraverso una messa in scena che conservi il distacco ironico. In assenza di ironia (come nel caso di Ammaniti) valgono le osservazioni di Covacich. Romolo Bugaro ha chiamato in causa l'informazione e la critica letteraria: nobili attività che servono, sono utili, sia al pubblico per essere informato sia agli stessi scrittori. Ora, il pulp è un'invenzione dell'informazione letteraria, assunta poi anche dalla critica: ma è una categoria seria? A render conto della cosa dovrebbero essere chiamati altri, non gli scrittori che al massimo, come appunto hanno fatto Nove e Scarpa, hanno cavalcato la situazione per ottenere un minimo di visibilità. Analoga la posizione di Roberto Ferrucci, che ha sottolineato le diversità tra gli scrittori presenti all'incontro. Una diversità bella e positiva, che dimostra che i giovani scrittori agiscono e pensano, al di là delle etichette appiccicate come soprannomi. Peccato che le occasioni d'incontro e confronto, necessarie per far fruttare queste diversità, siano poche.

Una conclusione provvisoria. Per chi non lo sapesse ancora, la parola pulp (il cui senso letterale è "polpa") viene dai pulp magazines, riviste che negli Usa venivano stampate su carta a buon mercato, ottenuta mediante un trattamento chimico della polpa del legno, che aveva un odore caratteristico e ingialliva presto. Queste riviste contenevano molta narrativa "popolare", cioè scadente e seriale: quella narrativa, peraltro, sulla quale si sono formati quasi tutti i maestri della letteratura "di genere" (fantascienza, fantasy, horror, thriller, ecc.). Il corrispondente italiano dei pulp magazines potrebbero essere gli Harmony e Blue Moon (che totalizzano complessivamente venti milioni di copie vendute all'anno). Ma la cosiddetta letteratura pulp italiana è tutt'altro che popolare; si propone invece come operazione ipercolta, iperletteraria ecc., svolta nel segno del gioco sfrenato, e apparentemente poco capace di stare in relazione con la realtà (ma molto capace di stare in relazione con i mezzi di comunicazione). In qualche caso invece la capacità di assorbire nella propria lingua le "icone" e i "miti" di cui parla Scarpa si unisce a una forte capacità di rappresentare il mondo reale ("il cielo e la terra", come scrive Panzeri). Il risultato più importante, in questa direzione, è senz'altro Fonderia Italghisa di Giuseppe Caliceti (Marsilio, pp. 265, L. 25.000), storia di un gruppo di ragazzi emiliani che dà vita a una discoteca nel capannone di un'ex fonderia (la Fonderia Italghisa esiste veramente, in via Gonzaga 41 a Reggio Emilia; in ogni copia del libro c'è un invito gratuito). Non è un romanzo privo di difetti ma è probabilmente il libro italiano più importante del 1996.

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