[Attualità]
Un racconto di Giulio Mozzi per NAUTILUS

Bianca
L a ragazza dietro al banco è magretta, meticolosa e rapida. Marco la guarda dal tavolino mentre fa finta di sfogliare il giornale (che giornale è?) e mangia a piccoli bocconi il panino di prosciutto cotto e formaggio. Sono le quattro del pomeriggio, la ragazza ha fatto il panino a Marco con l’ultimo mezzo sfilatino che aveva; ora ha svuotato il banco frigorifero appoggiando gli affettati e i formaggi sul ripiano di marmo, sta facendo una pulizia accurata. I capelli sono biondo cenere, abbastanza lunghi, fermati con due elastici: uno giallo vicino alla testa, uno rosso in basso. Marco guarda la ragazza, dà piccoli morsi al panino, gira le pagine del giornale (è arrivato in fondo, sta tornando indietro), beve dal bicchiere di tè freddo. L’aria condizionata è diventata accettabile, appena entrato Marco aveva sentito la camicia incollarsi gelida alla schiena; ora si sta bene, un gradevole fresco, Marco pensa alla vampata che lo aspetta fuori. Ha parcheggiata l’automobile all’ombra dei quattro grandi platani che fronteggiano la casa colonica. Tutto si aspettava Marco di trovare dentro, un qualcosa di finto caratteristico magari, con gli attrezzi agricoli appesi ai muri di cotto; non un bar così semplice e pulito, intonaco bianco e tavoli di legno chiaro, musica a volume bassissimo (sembra David Bromberg), un piacere per il viaggiatore stanco. Sulle pareti due grandi riproduzioni di Walasse Ting: una balena azzurra che si inarca contro un’onda, un ramo fitto di pappagalli multicolori. Nessuna pretesa. Anche la ragazza non ha nessuna pretesa. Butta il busto dentro il banco frigorifero per arrivare in tutti gli angoli con lo strofinaccio umido, e Marco vede che sotto la maglietta bianca ha un seno piccolo e non puntuto, un seno da bambina. Da bambina è anche il viso chiaro, da bambina sono gli elastici fermacapelli, da bambina è la gentilezza naturale nel servire, da bambina sono la diligenza e la calma nel pulire. E’ il suo compito e lo fa. Marco si vergogna un po’ di aver guardato il seno della ragazza e di avere immaginato, sotto la maglietta, un reggiseno semplice e comodo, magari con un fiocchetto o una rosellina di strass nell’incrocio; e sotto il reggiseno un seno color latte, morbido da toccare, bello da contenere nelle mani a coppa. Marco si accorge che non sta più nemmeno facendo finta di leggere il giornale, guarda la ragazza e basta. Dà due o tre morsi e finisce il panino, beve un altro sorso di tè.
Marco sta scappando. Dovevano essere, questi quindici giorni nelle colline toscane, i giorni della riconciliazione e della ricostruzione. Quindici giorni per noi, solo per noi. Dopo due anni di incontri rari tra un impegno e l’altro, di telefonate lunghissime che facevano sentire l’assenza, di camere d’albergo con la sveglia puntata presto. E dopo due anni, anche, durante i quali Marco è stato con altre donne e Bianca è stata con altri uomini, tutti e due incapaci di sopportare la solitudine del corpo, tutti e due incapaci di rompere e ricominciare (da un’altra parte, con un’altra persona, in un’altra vita), tutti e due incapaci di far diventare veramente presenza dell’altro le poche briciole disponibili. La vacanza era stata preparata con cura, forse con un eccesso di cura; e con una quantità di patteggiamenti. Io mi porterò del lavoro. Ok, anch’io. Voglio dire, ho delle cose che devo assolutamente leggere. Ma sì, non possiamo stare ammucchiati uno sull’altro, è bene che abbiamo le nostre cose anche, per sistemarci in disparte quando serve. Ho trovata questa casa, sono quattro stanze, è isolata, costa quasi poco. Isolata quanto? Ma, ci vorrà un quarto d’ora per Figline. Io voglio poter andare in paese, se serve. Vuoi avere gente intorno? Per carità no, voglio solo avere uno sfogo se mi serve. Questa casa com’è? Ci sono le due camere da letto, la cucina, una stanza grande. Come, le due camere da letto. Ho detto: le due camere da letto, e va bene così. Ok, porterò la pittura e il pennello, divideremo gli spazi con dei bei segni per terra. Perché non vuoi capire, accidenti, perché non vuoi capire. Io ti voglio sapere se ti posso amare, voglio questo. Anch’io ti voglio amare, ma vedi, siamo pieni di punte, di spigoli, di superfici abrasive...
Marco se li sente sul corpo, i colpi di quelle punte, gli scorticamenti, i tagli. E’ scappato al quinto giorno, è scappato alla mattina presto ma non è scappato davvero: è rimasto nella zona, a girare tra i paesi, abbastanza perso nel reticolo delle provinciali da sentirsi al sicuro, introvabile. E’ scappato alla mattina presto come si scappa dalla casa dove si è giaciuto con l’amante, è scappato alla prima luce come uno che debba fare un lungo viaggio, è scappato senza colazione e mentre Bianca dormiva ancora come uno che sia costretto a fare le cose di nascosto; nella realtà è scappato dalla propria moglie con la quale stava tentando una riconciliazione per mezzo di quella vacanza dalla quale (era così chiaro, così chiaro nei patti) ognuno doveva sentirsi libero di andarsene se l’avesse voluto. Amici come prima, o ex amici come prima, o più (o meno) che amici come prima, e così via. Marco guarda la ragazza. Ha rimessi affettati e formaggi dentro il banco frigorifero, ha tirato fuori il cestello dalla lavapiatti, l’ha svuotato e l’ha riempito di nuovo. Ora sta asciugando i bicchieri da birra (solo l’esterno), uno per uno, con uno strofinaccio pulito; li asciuga e poi li guarda in controluce, a volte gli dà un’altra strofinata; poi li appende capovolti alla rastrelliera sopra il banco della spina. Per appenderli tende il corpo, forse (Marco non può vedere) si alza in punta di piedi. Marco guarda incantato. Marco non dovrebbe mai guardare. Sono le quattro e dieci, sono passate esattamente dieci ore. Se i patti fossero veri patti, se fossero sensati, Marco potrebbe prendere la macchina e tornare alla casa. Le domande (cosa ti è successo, dove sei stato) non dovrebbero esserci. Ma come si fa. Sono passate dieci ore da quando Marco si è svegliato nel suo letto, nel letto dove la sera prima ha fatto l’amore con Bianca (Bianca, invece, ha sempre difeso il suo letto dall’invasione di Marco); sono passate dieci ore da quando Marco (violando i patti? forse) si è alzato dal letto e ha camminato fino all’altra stanza, pochi metri; sono passate dieci ore da quando Marco nella stanza di Bianca si è seduto al contrario su una sedia, appoggiando le braccia sullo schienale, e si è messo a guardare Bianca. Sono passate dieci ore meno qualche minuto da quando Marco, guardando Bianca, è stato preso dalle visioni. Sono passate dieci ore meno qualche altro minuto da quando Marco ha buttato in macchina la borsa con le poche cose (calzoncini corti, sandali, magliette, le carte del lavoro) ed è partito.
Anni prima, mentre si stavano innamorando Bianca diceva spesso a Marco: i tuoi occhi sono belli. Marco guardava Bianca, la guardava negli occhi. Bianca diceva anche: non ho mai incontrato nessuno che guardi come guardi tu. E diceva ancora: mi sembra che mi leggi dentro, mi sembra di poterti leggere dentro, i tuoi occhi sono come un’offerta infinita. E intanto Marco pensava: non è vero, i miei occhi prendono e non offrono, i miei occhi sono pozzi dentro i quali le cose cadono, anche tu ci stai cadendo dentro amore mio. Ma non le diceva, Marco, queste cose; e pensava vieni amore mio, cadi dentro i miei occhi, dopo che sarai caduta io li chiuderò, io ti terrò per sempre. Quando facevano l’amore Marco teneva sempre gli occhi chiusi e gli sembrava di vedere Bianca più che con gli occhi aperti: la vita sottile, il seno piccolo e leggero, i piedini minuscoli, le natiche perfette, il triangolo del pube bellissimo. Quattro anni dopo il matrimonio, quando tutto era già diventato così difficile, Bianca aveva cominciato a non sopportare più gli occhi di Marco. Marco era preoccupato, triste, stanco: si aggrappava con gli occhi a Bianca come l’ assetato alla fonte e Bianca gli diceva basta, non guardarmi in questo modo, scuòtiti, io non sono il tuo totem. Finché gli aveva detto: io non sono più tua, non voglio più che tu mi prenda né con il sesso né con gli occhi, stai lontano e non guardarmi. Me ne andrò. E se n’era andata, rifiutando l’aiuto di Marco, rifiutando di prendere dal conto corrente comune più di quanto fosse rigorosamente suo, rifiutando di portare via dall’appartamento oggetti e cose, rifiutando, sulle scale per uscire, che Marco portasse il peso delle due valigie. Così Marco, nella stanza di Bianca, seduto all’incontrario sulla sedia, appoggiato le braccia allo schienale, senz’essere visto ha guardato Bianca: un corpo piccolo, chiaro, esposto, dai confini precisi. Bianca dormiva con i soli slip addosso (di maglietta morbida, a quadrettini verde chiaro), a pancia in giù come aveva sempre dormito, abbracciando il cuscino, coperta le spalle dai capelli rossomori, la gamba destra dritta, la gamba sinistra piegata, il piede sinistro appoggiato al ginocchio destro. La colonna vertebrale percorreva la schiena magra. Marco ha guardato Bianca, ed ecco che cosa ha visto: una donna del tutto non sua, una donna alla quale lui, Marco, non è affatto indispensabile; una donna capace di essere bella mentre dorme da sola nel suo letto, una bellezza completa che non ha bisogno di un uomo al fianco. Marco ha guardato di nuovo e ha visto, nello spazio d’aria che lo separa da Bianca, come un miraggio ondeggiare la sua propria incompletezza. Allora Marco si è alzato e se n’è andato senza più uno sguardo per quella donna alla quale sente di non poter offrire più niente e dalla quale sa che non potrà mai più ricevere quello che lui più desidera; allora Marco si è alzato e se n’è andato senza più uno sguardo per quella donna che è completa in sé stessa e che non vuole più mettere a repentaglio la propria completezza tappando i buchi dell’ incompletezza di Marco; allora Marco si è alzato e se n’è andato: ma per modo di dire, visto che ha girato per le provinciali e che da qui, dal bar dove si è fermato a mangiare e a bere e a guardare la ragazza dietro al banco, da qui, dall’ombra dei quattro grandi platani sotto i quali ha parcheggiato l’ automobile con i finestrini aperti, da qui, da questi pensieri che sono ancora pensieri di Bianca, desiderio di Bianca, sofferenza per la separazione da Bianca, da qui Marco potrebbe non metterci più di mezz’ora a ritornare alla casa, fermarsi frenando, entrare correndo, salutare abbracciando, far l’amore piangendo.
Marco si alza in piedi, nelle mani il bicchiere vuoto e il piattino con le briciole di pane. La ragazza ha tolta la griglia della macchina del caffè, l’ha infilata nel lavello pieno d’acqua saponata (sporge fuori per metà), sta pulendo la vaschetta di raccolta con una spugnetta azzurra. Marco appoggia sul banco, con estrema cautela, piatto e bicchiere. Fa un rumore leggero, appena un tic, e la ragazza si volta, sorride. Marco sorride. Se vuole un caffè glielo posso fare, dice la ragazza. Grazie, dice Marco. La ragazza pulisce le mani nel canovaccio appeso, stacca il filtro da uno, apre il cassetto dei fondi, sbatte due volte il filtro, lascia che il cassetto si chiuda da solo, mette il filtro sotto la macinatrice, fa cadere una dose, preme il caffè caduto contro il tampone, riattacca il filtro, prende una tazzina. Macchiato? Macchiato freddo, grazie. La ragazza tiene sollevata la tazzina mentre il caffè cola. Marco non mette zucchero nel caffè (gli piace così) ma lo mescola ugualmente, un po’ per miscelare bene caffè e latte (l’espresso sempre è troppo forte, lui è un bevitore di caffè di moka) e un po’ per raffreddarlo. Sta in piedi, mette i gomiti sul banco. La ragazza piega la schiena sul lavello, comincia a lavare la griglia. Marco ha voglia di parlare, parla. Quanti anni hai, domanda. Diciassette, dice la ragazza raddrizzandosi un attimo, fiera. Queste sono le tue vacanze? Abito qui, dice la ragazza, e con il pollice della mano destra insaponata segna alle spalle. Aggiunge: è da quest’anno che mi fanno stare qui da sola, nelle ore tranquille.
Un piccolo vuoto, la ragazza lavora, Marco cerca cose da domandare. Viene tanta gente alla sera? Cominciano arrivare alle undici, ma ci sta mio fratello con mio papà, io non ci sto mai. Ti piacerebbe? Per carità, la ragazza ride. La notte è fatta per dormire. Poi devo studiare, se non c’era D’Onofrio mi prendevo latino. Fai il classico? Lo scientifico, a Figline. E ti fanno studiare il latino? Ma, fa la ragazza mentre asciuga la griglia. Prendere o lasciare. Voglio fare il medico, per di qua devo passare.
Io sono medico, dice Marco. (E’ la ragazza, ora, che farà le domande.) E’ contento? Sono contento, sì, dice Marco. Del mio lavoro sì. Lavora in ospedale? In pediatria. Davvero? La ragazza è entusiasta, Marco ha capito tutto. Ha lasciato stracci e strofinacci e si è appoggiata al banco di marmo difronte a Marco, appoggiata i gomiti proprio come lui. Voglio fare pediatria, dice. E’ dura, dice Marco. Tutto è duro, dice la ragazza. Marco guarda la ragazza negli occhi. La guarda. Lei dev’essere un buon medico, dice la ragazza. Cerchiamo tutti di essere buoni, dice Marco sentendo il panico che arriva; tira fuori il portafoglio e la ragazza è subito al registratore di cassa, ma si vede che le dispiace. Marco paga, saluta, fa tutti i suoi auguri alla futura pediatra, esce, attraversa la strada, senza aprire la porta prende le sigarette dal cruscotto, appoggiato alla macchina fuma. All’ombra dei grandi platani è quasi fresco.
Marco non è medico. Lavora all’associazione industriali, nell’ufficio studi. Il suo lavoro è dimostrare che le posizioni politico-sindacali dell’associazione hanno un fondamento scientifico. E’ servita a questo la laurea in economia e commercio. Ha un ufficio, una segretaria con il marito rappresentante per una ditta di elevatori. Qualche volta, negli ultimi due anni, ha passato la notte a casa di Marco. Marco ha scoperto, nei due anni di separazione da Bianca, di essere attirato da donne somiglianti a Bianca. Bastano pochi particolari: una certa esilità, il seno piccolo, la bocca dritta. Marco ha scoperto, nei due anni di separazione da Bianca, di essere capace di prendersi tutte le donne che vuole. Non gli serve molto: le guarda negli occhi, le fa sprofondare nei suoi occhi. Qualche piccolo regalo azzeccato (Marco ha un istinto per queste cose: mai una cosa preziosa, sempre una cosa rara), qualche serata svagante e sentimentale al punto giusto. Alla seconda o terza uscita, zac. Marco soffre quando, nella casa che ora è solo sua, si trova solo nel letto. Alle donne che corteggia non chiede di volergli veramente bene, chiede solo la compagnia. Non chiede una storia, chiede due o tre serate da far passare lentamente, chiede di potersi svegliare con un corpo accanto. Marco si sente a volte come una pagina bianca che desideri di essere scritta. Gli piace sentire l’altra persona che quietamente esplora il suo corpo, lo accarezza e lo bacia, lo rassicura minuziosamente. Gli piace offrire, come può, in cambio, carezze e baci.
Mentre finisce la sigaretta (ma, anche all’ombra dei grandi platani, fa troppo caldo per fumare: la sigaretta gli ha bruciato la bocca) Marco pensa che sarebbe bello tornare all’adolescenza, essere di nuovo vergini, essere posseduti da un desiderio intatto. La prima volta che non aveva dormito da solo (aveva diciott’anni, i suoi erano via) Marco era entrato nella compagnia dell’altra persona senza sapere che cosa aspettarsi e senza sapere che cosa desiderare. Desiderava tutto, voleva tutta l’altra persona intera. Al risveglio, poi (si è sempre svegliato presto), Marco era stato preso dal panico. La ragazza che dormiva stretta a lui, dentro il letto, aveva avuto tutto lui: entro poco se ne sarebbe andata, portandoselo via. Così Marco aveva aspettato che la ragazza si svegliasse, era rimasto lì a guardarla: e, guardandola, si era ripreso quanto più poteva di sé stesso. Quella parte di me che hanno presa le tue mani, quella parte di me che ha presa il tuo seno, quella parte di me che ha presa la tua schiena, quella parte di me che ha presa la tua bocca, quella parte di me che hanno presa i tuoi piedi, quella parte di me che ha presa la tua vagina, quella parte di me che hanno presa i tuoi capelli. Poi avevano fatto l’amore di nuovo, ma questa volta per Marco non si trattava più di fondersi con la ragazza, di tentare l’unità con il creato, bensì di sentire tutta la sua differenza, la sua distanza, la sua separazione. Io sono io.
Bianca per sei mesi non si era più sentita. Qualche telefonata, rapidissima e secca, per le cose indispensabili. Si erano sposati con la comunione dei beni. Poi una sera aveva telefonato e aveva detto: vieni qui. Marco era andato. Non a casa tua e non a casa mia, aveva detto Bianca. Erano andati in un albergo vicino alla stazione, come due amanti abusivi. La carta da parati strappata, il bagno piccolissimo. Bianca aveva fatto l’amore furiosamente. Marco era terrorizzato. La notte precedente una giovane sindacalista (cislina, della grande distribuzione; conosciuta a un convegno quindici giorni prima) per due volte lo aveva svuotato del suo seme. Aveva fatto quello che poteva: aveva baciato, leccato, succhiato, morso; aveva accarezzato, strofinato, premuto, strizzato; tutto, pur di non essere chiamato alla penetrazione. Ce l’aveva fatta. Bianca aveva un treno alle otto e quattordici: adesso sto a Milano, gli aveva detto.
Era stata la loro prima volta da amanti. Poi era successo altre volte. Alcune volte era andata bene. Altre volte avevano litigato. Alcune volte Marco era salito a Milano, più spesso Bianca era scesa a Firenze. Mai a casa tua, mai a casa mia. Incontri clandestini, di nascosto dalle amanti (sicure) di Marco e dagli amanti (che Marco immaginava, ma non sapeva) di Bianca. Una notte (a Milano) Bianca, mentre giaceva spossata (era stato bravo, Marco, quella volta) aveva cominciato a parlare. Ho trovato un uomo, aveva detto. Marco si era sentito fuori, escluso. Non mi dire niente, aveva detto. No, ti dico invece. Ho trovato un uomo. Un uomo serio. Uno che, a gestirlo bene, potrebbe anche essere da viverci insieme. Che uomo è? Non ti inorgoglire, non ti somiglia per niente. Ha una farmacia, si chiama Alberto. L’ho conosciuto a una mostra, figùrati. Per un mese abbiamo parlato solo di quadri. E quando avete finito tutti i quadri? Abbiamo fatto quello che fanno tutti, come è naturale. Siete venuti qui? Non dire cattiverie per niente, sono andata a casa sua. E’ un separato, anche lui. E ogni tanto va anche a letto con l’ex moglie, aveva domandato Marco.
Bianca era diventata una belva. Io non sono la tua ex moglie, idiota, io sono la-tua-mo-glie, non lo vuoi capire? Qualunque uomo mi va meno bene di te, anche se sei uno che dice di queste cose schifose. Potrei lasciarti veramente solo se trovassi uno capace di farmi da marito. Io non ti voglio lasciare. Ti ho lasciato perché mi mangiavi tutte le forze. Ti piaceva possedermi, prendermi. Non capisci che è proprio questo che ti voglio far capire, che possiamo essere marito e moglie anche se non c’è nessun possesso? Anche se ciascuno, io, tu, è padrone di sé stesso e basta? Marco non aveva capito. L’aveva detto: non ho capito. E poi aveva detto: e non posso neanche continuare a vederti in questo modo. Voglio una cosa più dignitosa. Non voglio una cosa con i nervi a fior di pelle e con il treno che parte. Così avevano cominciato a parlare delle vacanze (era ancora inverno), della casa non lontana da Figline, e dei patti da rispettare. Intanto Marco aveva cercato di districarsi dalle sue amanti, di disabituarsi a trovare occupato l’altro lato del letto, di imparare a tenersi il desiderio e il bisogno per gli incontri con Bianca; e Bianca (così diceva almeno) aveva dato il benservito al farmacista, il quale d’altra parte non se l’era presa male. E si erano incontrati, finalmente, una volta a casa di Marco (era andata benissimo, Marco per quattro giorni non aveva fatto altro che pulire e cancellare tracce) e una volta a casa di Bianca (dove era andato anche tutto benissimo fino alla mattina, quando durante la colazione era suonato il telefono e a Marco era toccato sentire per cinque minuti tutta una conversazione a base di no Alberto, non posso Alberto, nemmeno oggi posso Alberto, credo che non potrò mai più Alberto); e poi Bianca era rimasta cupa e zitta e Marco aveva pensato: se io non fossi stato qui, avrebbe detto no?
Marco vorrebbe tornare dentro al bar. Vorrebbe dire alla ragazza: vieni con me, ho una casa qui vicino dove fino a stamattina c’era una donna ma adesso non c’è più, è andata via; vieni con me, voglio fare l’amore con te come se fosse la mia prima volta, me la ricordo così bene che potrei rifarla uguale, con tutti gli stessi gesti e con tutti gli stessi sentimenti; vieni con me, se non hai mai fatto l’amore non avere paura, sono un uomo buono e delicato, so baciare e so accarezzare, potrei anche fare a meno di penetrarti se tu volessi; vieni con me, io ne ho bisogno e a te non può fare nessun male, anzi sarà una cosa bella e la faremo e poi la rifaremo; vieni con me, bambina, ti prego. Io sono un uomo e tu mi desideri. Ti desidero, Bianca.
Marco torna effettivamente dentro al bar. La ragazza sta lavando per terra, lo saluta sorpresa e allegra. Marco la saluta come uno che va di corsa, va fino al telefono a monete, fa confusione con i foglietti che gli gonfiano il portafoglio. Trova il numero, chiama la casa dove, forse, c’è ancora Bianca. Il telefono suona, suona. Marco desiste. Mentre mette giù la cornetta gli sembra di sentire la voce di Bianca che dice: pronto. Allora rifà il numero, e dà occupato. E’ naturale, starà cercando di capire che cosa succede. Allora conta fino a venti e chiama di nuovo. Occupato. Aspetta un minuto d’orologio e chiama. Occupato. Aspetta un altro minuto. Occupato. Marco guarda il centro della stanza, disorientato. Ha pensato a uno scocciatore? Ha capito che sono io, e non mi vuole? Ha telefonato a un altro per darsi un alibi? La ragazza dice: dottore, cosa le succede? Niente, dice Marco, niente. La ragazza si avvicina, gli avvicina una sedia, dice: dottore, lei è pallidissimo, si sieda. Marco fa due passi verso la sedia, invece abbraccia la ragazza. La ragazza non si ritira, accetta l’abbraccio come tutte le donne istintivamente accettano la cura del sofferente. Marco la stringe a sé, sente il seno di Bianca premergli contro il petto, gli viene su un singhiozzo dalla gola. Dottore, dice ancora piano la ragazza, si calmi dottore. Marco termina l’abbraccio, si trova rigido difronte alla ragazza, dice piano: ti chiedo scusa. La ragazza lo chiama automaticamente come l’anitra chiama i piccoli, ripete dottore, dottore. Marco dice ancora: ti chiedo scusa. Si volta, se ne va. La ragazza è sulla porta e Marco è già dentro l’automobile, si avvia.
Bianca non c’è più, la cornetta del telefono è ancora appoggiata sul mobiletto, Marco fa quattro volte il giro delle quattro stanze, esce e guarda bene nel giardino, cerca come alla sera si cercano i giocattoli che i bambini lasciano in giro, anche nei posti più impensati. Si butta sul letto desiderando di non sentire più niente. Si addormenta. Si sveglia che è buio, ha la bocca impastata e arida, si sente sporco. Si alza, cammina. Apre il frigorifero, beve acqua dalla bottiglia fresca. Vede il telefono, mette la cornetta sulla forcella. Il telefono suona quasi immediatamente. Marco lo sapeva, Marco sa quello che sta per succedere, Marco sa che quello che sta per succedere si ripeterà molte altre volte, Marco sa che quello che sta per succedere gli farà male, Marco sa che quello che sta per succedere potrebbe non succedere, Marco sa che perché non succeda quello che sta per succedere basterebbe non rispondere al telefono, Marco sa che basterebbe allontanare la mano che per istinto già si è mossa, rifugiarsi in cucina, lasciare che gli squilli finiscano, lasciar morire Bianca.
22.7.95-9.6.96
Giulio Mozzi