[Attualità]
Intervista a Giulio Mozzi, finalista al Premio Strega con:
"La felicità terrena"


Ma non datemi dello scrittore

"Per me la letteratura è un mezzo , non un fine. Credo nel valore etico delle cose che scrivo. Metto il mio indirizzo sui libri che scrivo perchè chi legge possa comunicarmi impressioni , giudizi, o magari mandarmi anche a quel paese..."
A lla fine l’ha spuntata [mozzi] Alessandro Barbero. Ma nella cinquina dei finalisti che fino in fondo gli hanno conteso il 50° Premio Strega c’era anche lui, Giulio Mozzi, padovano, classe 1960, giovane narratore salito agli onori delle cronache (letterarie) nel ‘93 quando vinse il Premio Mondello per la miglior opera prima con Questo è il giardino. Fu in quell’occasione che Federico Fellini ebbe a dire di Mozzi che il suo è «il linguaggio della vita», capace però di rendere misteriose anche le «parole della quotidianità». A distanza di tre anni la conferma di un talento letterario tutt’altro che episodico arriva dalla lunga corsa verso lo Strega sostenuta da La felicità terrena, il volume di racconti che Mozzi ha pubblicato quest’anno con Einaudi.
Autore schivo, essenziale, dalla scrittura sorvegliatissima dove la profondità delle riflessioni si alterna all’ironia, Mozzi, oltre che scrittore in prima persona, è un autentico talent scout letterario: insieme a Silvia Ballestra ha curato per Transeuropa un’antologia di scrittori italiani under 25 dal titolo «Coda», dove sono raccolti undici racconti firmati da altrettanti giovani tra i 17 e i 25 anni. E ancora: curato da lui è in uscita un quaderno della rivista padovana «Appunti» dal titolo «Storie padovane», antologia di racconti sulla città del Santo e sui mille modi di viverla scritti da giovani «promesse» padovane. A questa intensa attività pubblicistica, Mozzi ne affianca poi altre di carattere squisitamente didattico: tiene corsi di scrittura creativa presso circoli culturali e scuole nonchè corsi di aggiornamento sulla narrativa italiana. [mozzi]Insomma è una vita movimentata quella di questo trentacinquenne vissuto fino agli otto anni a Sottomarina e trapiantatosi a Padova dal ‘68. Studi liceali, un’università presto abbandonata a beneficio di un lavoro in libreria, poi l’approdo in una piccola casa editrice padovana dove fa l‘addetto stampa, infine, alle soglie dei trent’anni, l’avventura letteraria.
In che modo e quando è nato come scrittore Giulio Mozzi?
Devo confessare anzitutto che la definizione e Il ruolo di scrittore mi mettono un po’ a disagio. Se per scrittore si intende uno che campa scrivendo, allora non sono e non mi ritengo uno scrittore. Sono semplicemente uno che scrive delle cose, perchè crede di avere qualcosa da scrivere. E’ un’abitudine che ho sempre avuto, fin dall’adolescenza. Solo che non sono mai stato convinto di quello che scrivevo. Fino a che, a trentun’anni, ho scritto qualcosa di cui mi sono sentito sicuro. Mi piaceva e ho deciso di farlo leggere a qualcuno della casa editrice Theoria. E’ piaciuto, e così diciamo che sono diventato uno scrittore.
Molto singolare. Ad esempio alla fine della nota introduttiva a «La felicità terrena», lei inserisce anche il suo indirizzo di casa. E’ un vezzo o c’è una ragione?
Il motivo c’è ed è duplice. Da una parte credo che chi legge abbia il bisogno di sentire di aver a che fare con una persona reale, a portata di mano e non con un astratto autore; dall’altra anch’io che scrivo ho bisogno di pensare ai miei lettori come a persone concrete, con cui poter comunicare. Mettere il mio indirizzo sul libro è dunque un modo (se si vuole molto semplice ma certamente efficace) di ottenere un effetto di prossimità: chi legge può scrivermi, comunicarmi le sue impressioni, darmi il suo giudizio o magari mandarmi a quel paese e a mia volta io posso capire che cosa passa per la testa del lettore davanti ad un mio libro.
I suoi sono finora libri di racconti. Come mai non ha fatto il salto nel romanzo? O ha in mente di farlo?
Mi vengono dei racconti, non dei romanzi. Tutto qui. E per il momento non ho in progetto romanzi.
Le sue storie sembrano tutte uscite da un vissuto personale autentico. E’ così o ce ne sono di pura invenzione?
Credo che un lettore attento sappia distinguere dove finisce la verità e dove inizia l’invenzione di una storia. Ma al di là di questo a me non interessa riprodurre un fatto o un avvenimento così come si è verificato. Quello che mi sforzo di rendere è la percezione degli avvenimenti, quello cioè che un fatto, una persona, un incontro hanno lasciato dentro di me. Il che può anche non corrispondere perfettamente a quello che è successo nella reltà.
Come scrive i suoi racconti: di getto, in tempi rapidi oppure lentamente limando e rilimando il testo?
Non c’è una norma fissa. In calce ai miei racconti ci sono delle date che si riferiscono al tempo di composizione. Se si eccettua «Ti ricordi quanta neve, l’anno scorso?» che è stato scritto in un giorno, gli altri hanno tempi diversissimi: qualcuno di mesi, qualcuno addirittura di anni, perchè sono stati ripresi e modificati più volte.
Il suo sembra uno stile quasi infantile. In più di qualche racconto ad esempio sembra che le cose siano raccontate da un bambino o da un ragazzo e in quasi tutti è evidente un certo gusto per la ripetizione dei termini. Perchè?
Più che il lessico mi interessa la sintassi. E’ vero: tendo ad usare il meno possibile i pronomi e questo perchè mi interessa ottenere un effetto di presenza delle cose. Le ripetizioni servono a questo, oltre che a dare quando è necessario un certo tocco comico. In ogni caso desidero che chi legge abbia un effetto di evidenza e scopra il testo parola dopo parola senza ricevere anticipazioni di sorta.
Cioè? Potrebbe farmi un esempio?
Per esempio una frase come: «Giuseppe era bello ma sporco» contiene la congiunzione «ma» che orienta già il lettore verso ciò che seguirà. Io invece preferisco ribaltare questa logica e scrivere: «Giuseppe era bello e sporco», in modo che il lettore scopra le due caratteristiche di bellezza e sporcizia senza alcun minimo preavviso.
L’io narrante di molte sue storie ha in genere un brutto rapporto con la memoria. Tende cioè a dimenticare facilmente. E’ anche lei così?
Certo che no. In effetti il personaggio «Io» dimentica molto ma solo per poter mettere in scena il ritrovamento del ricordo.
Quali sono gli autori che per lei sono stati fondamentali?
Ci sono due libri che hanno profondamente contato nella mia vita: «Il grande raccordo» di Marco Lodoli e «Camere separate» di Pier Vittorio Tondelli. Dopo l’Enciclopedia Conoscere e i racconti di Salgari, naturalmente.
So che c’è un altro autore a cui lei è particolarmente affezionato, Carlo Coccioli, scrittore da noi poco noto che da anni vive in Messico dove è diventato famoso anche come giornalista. C’è una ragione particolare per questa sua simpatia letteraria?
Coccioli è una persona davvero straordinaria: quello che più ho apprezzato di lui è che è stato capace di scrivere su di sè cose delle quali chiunque altro si sarebbe vergognato. I suoi libri sono il frutto di una ricerca spirituale lunga e spesso penosa che egli non ha avuto problemi a classificare con estrema onestà e lucidità. Eppure la produzione di quest’uomo che fino a qualche decennio fa ha goduto di una discreta fama anche in Italia, oggi è dimenticata e introvabile. L’unico testo ancora reperibile è una biografia di Buddha, mentre per gli altri suoi libri bisogna affidarsi a traduzioni francesi. E pensare che in Messico ha una fama paragonabile a quella che da noi ha un Biagi.
Lei è un cattolico che non fa mistero in ciò che scrive delle sue convinzioni. Si ritiene uno scrittore impegnato?
Torno a dire che non mi considero uno scrittore. A me interessa il contenuto etico delle cose che scrivo; le competenze letterarie sono strumentali. In altre parole, non mi interessa fare della letteratura: la letteratura è un mezzo attraverso cui far passare un determinato contenuto. Perciò direi più esattamente che mi interessa la lingua capace di esprimere questi contenuti. Se dovessi indicare uno scopo etico del mio lavoro è quello di insegnare un po’ di lingua, specialmente ai ragazzi che sembrano sempre più monosillabici.
A proposito di ragazzi, come giudica il rapporto dei giovani con i libri? E’ vero che leggono poco perchè c’è poco interesse o anche perchè c’è un problema di offerta poco adeguata?
Bisogna distinguere. Fino ai 14 anni l’offerta di libri per ragazzi è ottima e il mercato dei libri è in piena espansione. Non c’è invece una produzione delineata per gli anni successivi, anche perchè sostanzialmente l’offerta di lettura ai ragazzi arriva dalla Scuola che tende a far leggere le opere degli autori più conosciuti. E gli insegnanti per primi, un po’ perchè bastonati professionalmente, un po‘ perchè impigriti mentalmente, scoprono spesso con ritardo le novità letterarie. Forse la soluzione sta nella cosa più ovvia e più difficile da fare: formare meglio i docenti, aggiornarli e gratificari quando hanno voglia di fare.
Andando sul personale, ha qualche hobby particolare?
Detesto la parola hobby.
Allora diciamo qualche interesse alternativo alla scrittura?
Non molti. Sono un buon ascoltatore di musica. Ma solo di quella riprodotta. Niente concerti dal vivo o cose del genere. Praticamente nient’altro. Ah no! Sono anche uno specialista di passeggiate con la morosa.
L’essere arrivato nella cinquina dello Strega le ha cambiato la vita?
Mi ha stupito un po’. Ma senza nessuna emozione particolare. Non sono uno che si fa facilmente «stregare» dai premi letterari. E finora sono anche riuscito a contenere i danni che al di là di un po’ di tempo perso in promozioni non sono andati.
E un sogno nel solito cassetto c’è o no?
Una casa in campagna.
Che forse grazie ai diritti di «La felicità terrena» potrebbe diventare realtà.
Guardi, lasciamo stare la questione soldi. Del Premio Mondello che ho vinto nel ‘93 non ho ancora visto una lira e quanto a quest’ultimo libro è già molto se i guadagni copriranno le spese. Perciò se uno ha intenzione di fare quattrini con i libri è meglio che cambi mestiere subito.
Luciano Chiodi