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redarrowleft.GIF (53 byte) Lettura Febbraio 2003  

Desidero, quindi sono

Viviamo in un mondo dove la parola d’ordine è possedere. La ricchezza, una Ferrari, donne bellissime. Per poi scoprire che quello che si vuole veramente non sono oggetti e persone, ma è quello che non si ha. E nel suo saggio Ugo Volli ci spiega che il significato della vita è proprio nell’impossibile rincorsa alla pienezza di sé

Ugo Volli, Figure del desiderio, Raffaello Cortina Editore, pp.363, Euro 13,00

Finite ormai nel dimenticatoio le ideologie, tutti noi più o meno disincantati occidentali dell’era post-moderna abitiamo un mondo dove regna sovrano assoluto il desiderio: unico credo, unico imperativo categorico di questa nostra società all’insegna dell’edonismo e dei consumi. Anche se poi l’apparente ampio spettro del desiderare si riduce quasi sempre, ahinoi, a ciò che si può acquistare o all’invidia rispetto a oggetti di prestigio o appagamento appartenenti ad altri. Oggi certo non si desiderano più le vecchie utopie ormai tramontate: equa redistribuzione delle ricchezze, benessere e giustizia per tutti, solidarietà… Non si desidera tanto al plurale – collettivamente – ma al singolare, nei confronti di cose o di un miglioramento tutto soggettivo, privato e alla fin fine narcisistico.

Eppure in realtà, sostiene provocatoriamente Ugo Volli nel suo recente e pregevole saggio intorno alle Figure del desiderio: “Ciò che si desidera non è mai esattamente un oggetto”. Noi non bramiamo di poter avere una Ferrari, un miliardo, una donna o un uomo bellissimi, ma ci intriga e fa vogliosi piuttosto il discorso, il disegno narrativo che intessiamo intorno a (e che ci relaziona con) questi oggetti; intorno a tali figure attraenti. In parole povere, ogni brama è prima di tutto costruzione mentale e culturale; è assegnazione di valore e importanza che proiettiamo su una cosa ma che innanzitutto riflette ciò che io credo possa dare maggior significato, piacere, accrescimento o libertà alla mia vita. Ancora, il desiderio è legato a filo doppio con la mancanza, con quanto cioè non posseggo o detengo stabilmente. Sogno il conto in banca che non ho, l’attore o la diva che assai difficilmente riuscirò a conquistare, la villa che non mi appartiene. Quindi esso è cifra illuminante della nostra condizione esistenziale di esseri carenti e fragili che, non bastando a se stessi, sempre abbisognano dell’altro da sé per sussistere. Come ha sottolineato Guenther Anders, infatti, la fame di mondo o il suo desiderio svelano la finitezza dell’esserci.

Così, continua Volli, desiderare equivale a “raccontare una bella storia su di sé”; significa auspicare ci accada una certa “vicenda”. E sicuramente quella più fiabesca, o più comune, è quella che ha per oggetto l’amore: il desiderio per antonomasia. L’amore, dove l’agognato è appunto l’altro da me, l’uomo o la donna che ancora mi manca o comunque “non c’è mai abbastanza” in quanto la fusione ideale, l’unione totale non è possibile in quanto i partner sempre individui distinti restano, perfino nella compenetrazione del coito, nell’amalgama estremo tra il fisico e l’estatico dell’orgasmo. L’amore, la cui alchimia fa scatenare il massimo potenziale di bramosia: desiderare d’essere a propria volta desiderati. Ma per far scattare nell’altro/a il desiderio nei miei confronti ecco sempre più l’interesse, al limite dell’ossessività, per il corpo. Un corpo sì da ostentare, ma prima ancora da perfezionare incessabilmente attraverso cure fatte di cosmetici, diete, fitness, chirurgia estetica e chi più ne ha ne metta pur di trasformarlo in feticcio, in segnale erotico, in strumento di e per il proprio e altrui piacere.

Volli ci parla infine del desiderio più irrisolto e vano, quello del rimpianto per ciò che non è più o, peggio, mai è stato possibile conseguire, ossia quella passione dell’assenza, per sua natura impossibile da appagare perché fondata sul lutto e sull’illusione infantile d’onnipotenza. Un anelito melanconico – legato al sogno di annullare il tempo e l’irreversibilità della nostra parabola esistenziale  – che spesso cela un altra parallela e folle velleità: quella di poter mai giungere ad una pienezza assoluta: immutabile e definitiva, desiderio che è insieme hybris (tracotanza, come l’ebbero a chiamare i greci) e pulsione di morte (per dirla con Sigmund Freud). Sarà che forse ha proprio ragione Volli: quello che auspichiamo davvero di ottenere “a rigore, non esiste” in quanto: “Il desiderio non riguarda mai le cose come sono, ma solo come non sono”. Esso ha a che fare ancora una volta con la mancanza, col nulla e col nostro essere esposti al mondo. Colto in quest’ottica, però, il desiderio è un appetito vitale; consentendo tale tensione mai del tutto appagabile il gioco (direbbe Gadamer) in cui può esprimersi la vita. Lo iato – lungo o breve, abissale o piano che sia – fra aspettativa e appagamento che viene a costituire giusto il tempo e lo spazio: la dimensione propria dell’umano consistere.

Francesco Roat

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