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redarrowleft.GIF (53 byte) Lettura Gennaio 2003 
 

La Gioconda desnuda

 Un’arte ignorata e disprezzata da intellettuali e storici. Così Ando Gilardi vede la storia della fotografia pornografica. E per provare la sua tesi ha raccolto centinaia di immagini, dal 1800 fino alle moderne tecniche digitali. Anche se dietro a quelle figure “pure e semplici”, come le definisce l’autore, si nasconde un vero e proprio business che dura fino ad oggi

Ando Gilardi, Storia della fotografia pornografica, Bruno Mondadori, pp. 387, euro 32,00

Storia “infame”. Così polemicamente Ando Gilardi definisce l’oggetto del proprio saggio, volto a ripercorrere le varie fasi e modalità della fotografia pornografica, intorno alle quali il silenzio degli storici è stato quasi totale. L’autore ha il dente avvelenato contro gli intellettuali bacchettoni e ipocriti che hanno così a lungo snobbato questa forma d’arte (o artigianato) che più di tutte le altre ha a che fare sì col corpo e con la sessualità, ma innanzitutto col desiderio e con le sue icone create dall’immaginario maschile sin dagli albori della tecnica fotografica. Lo testimoniano i numerosi dagherrotipi che illustrano il primo capitolo di un testo corposo, scandito in dieci libri, frutto di appunti e materiali raccolti dal Nostro attraverso un arco di tempo lungo circa un cinquantennio.

Inizia infatti sin dai tempi di Daguerre (l’inventore della fotografia) la crociata integralista contro le immagini pornografiche, condannate non solo dalla Chiesa ma dai tribunali di tutta Europa, vuoi per la loro rivoluzionaria carica destabilizzante rispetto al moralismo tradizionale imperante, vuoi per il carattere trasgressivo dei fotomontaggi a sfondo erotico con cui si mettevano alla berlina re, regine, papi e persino personaggi aureolati di retorica nazionalistica, come lo stesso Garibaldi. 

Vicenda “infame”, dunque, quella ricostruita da Gilardi, ma anche a suo modo eroica, se teniamo conto del numero impressionante di tutti gli uomini e le donne finiti in carcere, rei di aver reso “disponibili al grande pubblico i segreti dei corpi tenuti celati per secoli”. Ovvio che le immagini pornografiche non rappresentassero – né rappresentano a maggior ragione oggi – solo la testimonianza di un anelito alla libertà espressiva; esse erano e sono prodotte a fine di lucro, permettendo da sempre di realizzare un enorme business economico in cui i modelli e in primo luogo le modelle (un tempo quasi esclusivamente prostitute) alla fin fine venivano e vengono molto prosaicamente sfruttati. 

Va comunque elogiata senz’altro la competenza divulgativa di Gilardi (fondatore, tra l’altro, della Fonoteca storica nazionale) per avere non tanto messo a disposizione dei lettori una mole considerevole di materiale iconografico (sono centinaia le fotografie, talune delle quali mai finora pubblicate), bensì innanzitutto per l’intelligenza della parte testuale; per l’analisi ermeneutica così arguta delle figurazioni pornografiche: dalla dagherrotipia alle immagini digitali. Una sola cosa mi permetto di obiettare all’autore. Non sono d’accordo con la sua affermazione un po’ ingenua che: “mai nella storia dell’iconografia ci furono immagini più ″pure e semplici″ delle prime fotografie pornografiche”. Non dimentichiamoci che, sin dal suo esordio, la pornografia non già descrive semplicemente un’esperienza corporea o un rapporto sessuale ma la loro simulazione. La foto porno è sempre costruita, quindi mai pura, e il suo luogo è l’immaginazione più che la fisicità. Essa piuttosto, come ebbe a dire Khan, è sovversiva in quanto annulla la persona, reificandola in macchina fantasmatica per un godimento onanistico cioè alla fin fine solitario e mentale, il quale nulla ha a che fare con la sessualità relazionale, che è rapporto paritario tra due esseri, piacere di un darsi reciproco.

Francesco Roat

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