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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Giugno-Luglio 2002

L’ora di Castellitto

Lodato dalla critica. Amato dai registi. A suo agio a teatro come al cinema: per Sergio Castelletto è un vero momento d’oro. A cui si aggiunge il premio Strega vinto dalla moglie Margareth Mazzantini. Attore coraggioso, non si tira indietro anche di fronte alle storie più difficili. Come sono stati, racconta in questa intervista, i suoi ultimi lavori

Il 2002 sarà un anno da ricordare per Sergio Castellitto, vero e proprio attore dominatore del cinema italiano della stagione. Reduce da una tournée teatrale trionfale con un testo scritto da sua moglie Margareth Mazzantini (peraltro vincitrice del Premio Strega con il suo ultimo romanzo) l’interprete romano ha conquistato una serie di consensi grazie alla sua interpretazione prima ne L’ora di religione di Marco Bellocchio, poi in Va Savoir di Jacques Rivette e – infine – nel "delizioso" (è proprio il caso di dirlo) Ricette d’amore diretto dalla regista tedesca Sandra Nettlebeck. Una serie di affermazioni personali importanti dopo quelle di Concorrenza sleale di Ettore Scola e il Padre Pio televisivo.

Seduzione e cibo in che rapporto sono?

Mia madre non mi ha amato solo con le parole, ma attraverso il cibo. Personalmente non so cucinare bene. Mi sono avviato ad una vita da single e all’epoca mia madre mi ha insegnato i fondamentali. Amo molto mangiare e so cucinarmi qualcosina per sopravvivere. Seduzione e cibo sono molto vicine. Del resto una delle prime cose che si dice ad una donna quando la si vuole conoscere è: "Vuoi venire a cena fuori?". La cena è una prova generale del "secondo tempo": Profumi e sapori sono mille piccoli micromovimenti di seduzione. In ogni film c’è un visibile ed un invisibile, un detto e un non detto. La bambina protagonista di Ricette d’amore viene conquistata anche dalla semplicità dei gesti. Il cibo è un ponte verso l’altro.

Che cosa l’ha spinta ad accettare un ruolo complesso come quello de L’ora di religione?

Quando ho letto la prima stesura non ho capito assolutamente nulla della storia, ma per fortuna il progetto è andato avanti. Non capire, infatti, non significa non sentire, ed io, pur non comprendendo, sentivo che non avrei dovuto perdere l’occasione di salire su questo treno. Bellocchio nasce pittore, e quella prima stesura mi ha fatto pensare a un artista che mi mostrava i colori che avrebbe usato per realizzare un quadro, senza mostrarmi nulla dell’opera. Il grande privilegio di lavorare con Bellocchio è che l’attore recupera la necessità del proprio lavoro, la necessità di ciò che si fa dentro e fuori. Il lavoro con Marco è molto interessante, si prova una scena e alla fine, nove volte su dieci, Marco dice che la prova era perfetta per poi cominciare un’opera di demolizione sistematica di questa perfezione. È un artigianato molto puro, nel quale tutti ci sentiamo studenti, un modo di lavorare speciale, in un mondo di supponenza professionale. La sapienza si fonda infatti su ciò che non sai, non su ciò che pretendi di sapere. Ma fare un film è anche un percorso umano, in cui non conta solo fare il film, ma l’intera esperienza che è un patrimonio della tua vita di uomo. E qui ciò che ha prevalso è il primato delle relazioni umane oltre a un’atmosfera di lavoro allegra.

Si aspettava reazioni tanto dure da parte del mondo cattolico?

Non credo che sia un film contro il mondo cattolico, ma sulle contraddizioni della società civile, su come adopera il dogma, la religione e altro in maniera ipocrita. Non è un film contro la religione in generale e va detto chiaramente, non per paura della reazione del mondo cattolico, ma perché credo che sia un’opera dalla spiritualità altissima, con un’intenzione religiosa fortissima. È un film sulla coerenza, di cui non si parla più, e questo è un tema che riguarda tutti. E molti preti forse sono molto più coerenti dei laici.

Non crede che la religione oggi, almeno al cinema, sia un argomento un po’ retrò?

Il film non ha solo un aspetto religioso, ma anche psicologico. La catastrofe di cui si parla è una catastrofe affettiva, il buco che il protagonista, un artista, ha nel cuore e nello stomaco. La sua reazione ostile nei confronti del sorriso angelico della madre, in realtà è rivendicare il fatto che questa donna non gli ha dato amore, al di là del suo essere una donna cattolica. L’ora di religione è un film ricchissimo perché parla anche di noi, della nostra reazione. Ad un certo punto il figlio gli chiede cos’è la coerenza e lui risponde, in maniera adulta e al contempo infantile, "pensare una cosa e poi farla". È un uomo che si trova a fare i conti con tutti i ruoli della sua vita, il marito (separato), l’amante, il padre, il figlio, e che rivendica la propria coerenza, ma che prende i soldi da un editore di cui non condivide nulla e che detesta ideologicamente, politicamente, culturalmente. Come capita a molte persone.

m.s. 

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