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redarrowleft.GIF (53 byte) Varie Sport Aprile 2002
 

Poveri ma più belli

Se, di fronte all’impellente e devastante crisi del calcio italiano denunciata da presidenti e illustri opinionisti, a soccorrerci è uno struggente amarcord, dovrà pur esserci una ragione più profonda della nostalgia. Vediamo un po’…

Gennaio 1970, stadio Menti, Vicenza-Cagliari. Una rovesciata di Gigi Riva all’incrocio dei pali. Una folgore scagliata appendendo il sinistro al cielo, fra le teste smarrite dello "stopper" Carantini e del "libero" Calosi. Più che "una", meglio dire "la" rovesciata di Gigi Riva detto Rombo di Tuono. Così bella e unica da venire immortalata tra i gol che la televisione sceglie per raccontare in un baleno di immagini un lungo passato di partite e di gol. Figurarsi se poi a vederla entrare nella propria mente si era non davanti a un teleschermo, ma lì, esattamente lì, gli occhi appiccicati alla rete metallica del parterre dietro la porta dove quella pedatoria meraviglia si infila come un dardo degli dei. Con una tale perfezione, fatta di forza e armonia assieme, che tuttora, trentadue anni dopo, continua a creare un genuflesso stupore nella memoria di chi quel giorno c’era, allo stadio Menti.

Una foto tratta dalla galleria dei prodigi. Scelta per l’eccezionalità dell’evento, da unire al plusvalore emotivo della testimonianza diretta. Ciò nonostante rimane una delle tante, forse infinite immagini che fanno la grandezza del calcio. Aggiungeteci a piacimento il Pelè che si solleva fra le nuvole dello stadio Azteca, fino a fermare il tempo sull’immagine della propria aerea sospensione, inzuccando il gol che apre le danze in Brasile-Italia 4-1. E poi il Van Basten che tira al volo dalla linea di fondo il pallone di Olanda-Russia 2-0. E via di seguito, il tacco di Mancini come un irridente sfregio nella porta del Parma, il volo in dribbling del Roberto Baggio giustiziere della Cecoslovacchia, la punizione-scudetto di Fogli nello spareggio Bologna-Inter, i sette palleggi di Sandrino Mazzola prima di scaricare il destro nella rete della Svizzera, un semplice tocco di Gigi Meroni… Una volta evocata la parola "Calcio" con la maiuscola, si affolla sulla ribalta dei pensieri una tale congerie di prodezze, da non avere alcuna possibilità di sistematizzare quanto affiora dalla memoria, né di rendere giustizia a tutti coloro che queste meraviglie hanno creato nel domenicale infinito del nostro ieri.

Gesti, imprese, e follie che fanno l’Immagine del Calcio. Un qualcosa di per sé talmente amato, frequentato, omaggiato, venerato, incorniciato fra i ricordi di milioni e milioni di persone, da non avere apparentemente bisogno di essere promosso, imposto, diffuso. Nel 2002 questo è un presupposto solo in parte valido, e purtroppo inscindibile da ben altro tipo di considerazioni a proposito del calcio come industria dello spettacolo. Quest’ultimo si dà oggi a mo’ di catastrofe, soprattutto in Italia… Teatro di quella che potremmo chiamare senza tema di esagerare la settimanale Apocalisse degli stadi. Casse dissestate, 75% degli utili prosciugati dai calciatori, sistema televisivo imperfetto e molto meno munifico rispetto a certe aspettative degli anni passati, inflazione di partite, fuga del pubblico da tribune e gradinate, periodiche ricadute in black out sociali come la violenza (fisica e verbale) espressa dai tifosi, oppure etici, come quelli lasciati intravedere da un ricorso al doping tutt’altro che episodico, o dalla ricorrente tendenza all’addomesticamento del risultato, alla combine che concilia gli interessi di più varia natura, agli esiti di campionati consumati nel segno del narcisismo arbitrale, delle sospette arrendevolezze e degli eccessivi giochi sotto banco.

Dunque, l’Immagine del Calcio e l’Apocalisse degli stadi. Intendendo con questi ultimi i luoghi fisici nei quali come in nessun altro si dà conto dell’arretratezza, del pressapochismo, e dei palesi squilibri che minano alla base se non la sopravvivenza, almeno un minimo, dignitoso sviluppo del gioco del pallone in Italia. Dove, per un San Siro disegnato a immagine e somiglianza di mitologiche astronavi si deve tenere conto delle offensive insensatezze o lontananze dal gioco di un Delle Alpi, di un San Paolo, di un Olimpico o di un Friuli.

Ora sì che, mettendo assieme i cocci della presente disfatta, la necessità di una promozione, o forse di una rinascita di immagine del calcio italiano si profila, se non addirittura si impone. Accorgendosi, di fronte alle istantanee del disastro, che fra i valori più eclissati del Paradiso perduto risplende con vigore assolutamente singolare un qualcosa chiamato provincia. Il calcio dei campanili e delle nebbie padane, oh yes, dove ogni termine inglese serva proprio a rafforzare un’allusione alla purezza delle origini che anche in Italia furono segnate da un "made in England" preponderante, non tanto nel numero dei giocatori di origini albioniche (per altro molti, e spesso fondamentali, nella storia di società come il Genoa o il Milan), quanto piuttosto in un’etica del calcio, squisitamente provinciale, mutuato dalla britannica terra dove ebbe i natali.

Le stesse squadre venete come il Vicenza, che pure non si giovarono di stranieri d’oltremanica, col risultato agonistico di essere escluse soprattutto per questo motivo dal tavolo dei primi scudetti (anche dopo non andrà meglio, essendo arrivato il solo tricolore veronese del 1985) andarono alle prime tenzoni permeate di quel goliardico e mecenatistico spirito che, sospeso fra parrocchia circoli ginnici e collegiali atmosfere, irrora dei propri influssi l’intero baraccone del calcio pionieristico italiano. All’epoca qualche migliaia di lire in più a disposizione non fa della Juventus o dell’Internazionale qualcosa di radicalmente diverso da un Casale, un Vicenza o una Pro Vercelli. Non a caso sarà proprio quest’ultima, una decina di anni dopo il Genoa, a segnare nell’albo d’oro tricolore una seconda, sensazionale serie di vittorie: quattro in cinque anni, seguita da una quinta nel 1922. Né, alla decadenza dei vercellesi si accompagna un immediato eclissarsi del calcio di provincia, a cui il campionato italiano demanda un ruolo trainante anche nei decenni successivi, questi sì segnati dalla frattura con le più potenti e plutocratiche società di impronta metropolitana. Nonostante la comparsa di questo solco indelebile, ci sarà ancora tempo, nel corso degli anni, per accogliere sotto i riflettori della serie A piccole squadre tutt’altro che meteore: il Lanerossi Vicenza rinato negli anni cinquanta è una delle più importanti, assieme al Padova del catenaccio di Rocco, all’Atalanta e al Venezia baciate dalla Coppa Italia, all’Udinese, al Cagliari di Riva, al Verona di Bagnoli, al Catanzaro e al Cesena degli anni settanta, al Foggia ribattezzato Zemanlandia. Si va comunque, stagione dopo stagione, nel senso di un progressivo assottigliarsi del calcio dei poveri, e di un suo macroscopico scollamento da quello dei ricchi.

Ecco perché il Vicenza di Guidolin cinque anni fa, e il Chievo di Del Neri oggi, sono ancora i correlativi di quella Pro Vercelli di bianco vestita che piallava a mo’ di schiacciasassi qualsiasi area avversaria. Ammirate comprimarie, più o meno invitate ad accomodarsi al banchetto delle grandi, rispetto alle quali parlano lingue totalmente diverse in fatto di mezzi, peso politico, seguito, strutture societarie, fascino mediatico. Ora è interessante osservare come il radicale confinamento delle provinciali ai margini del carrozzone italiano vada di pari passo con il catastrofico ingripparsi del suo motore economico e spettacolare.

Una coincidenza che forse passerà inosservata a chi si propone di guarire il calcio italiano blindandolo nel professionismo imperfetto di una massima serie geopoliticamente spartita fra le grandi e le "medie" di seguito regionale (diciamo che con il Napoli, il Bari, una genovese e un’isolana di nuovo in A i giochi sarebbero fatti), e che risulta nello stesso tempo significativa agli occhi di quelli, la minoranza forse, che si augurerebbero l’approdo a un sistema-calcio caratterizzato da un professionismo finalmente maturo. Quest’ultimo lo si riconoscerebbe da vari fattori, probabilmente troppi perché oggi possa diventare realtà (bilanci sani, dirigenze realmente manageriali, riforma dei procuratori, cultura sportiva moderna, merchandising avanzato, etc…), ma state certi che non potrebbe prescindere da una presenza nuovamente forte e trainante del calcio di provincia.

Come escludere da uno show business calcistico inteso a reale misura della società dello spettacolo in cui viviamo ruoli da protagonisti, e non da tollerate comparse, per le Pro Vercelli del Duemila? Se guardiamo al modello dello sport americano, così imprenditoriale e televisivo, ma anche così diversificato e piramidale (i grandi campionati universitari di basket e football si alimentano di strapaesane mitologie, innervate con naturalezza nella roboante mediaticità degli eventi), nell’Italia del pallone andremo sicuramente nella direzione di una democrazia compiuta, e non di un’oligarchia di tiranniche tendenze (ah, quali inquietanti simmetrie con la realtà politica…).

Se l’Immagine del Calcio si è finora alimentata dell’amore di un intero Paese, non è stato solo per le stelle cucite sulle maglie di Juve Milan e Inter, ma anche per quella R comparsa trent’anni di fila sulle più ruvide casacche del (Lanerossi) Vicenza. Quella rovesciata Gigi Riva Rombo di Tuono la fece al Menti, e non a San Siro. Ci sarà pure un perché.

Stefano Ferrio

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