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redarrowleft.GIF (53 byte) Lettura Aprile 2002  
 

Quell’epicureo scettico non è certo uno stoico

Hanno più di duemila anni e le usiamo spesso ancora oggi. Senza sapere che a volte certe parole non vogliono dire quello che noi crediamo. Così gli epicurei erano persone frugali e non dei gaudenti. E gli stoici non erano dei supermen resistenti a ogni dolore ma credevano nel destino e prevedevano il futuro. Filosofi diversi che avevano però un fine comune, come ci spiega Léyi nel suo saggio: insegnare l’armonia e la tolleranza

Carlos Lévy, Le filosofie ellenistiche, Einaudi, pp.247, Euro 17.00

"Carneade. Chi era costui?" si domanda Don Abbondio nei Promessi sposi. E forse con lui si pongono ora lo stesso quesito molti lettori, scordatisi di questo filosofo davvero poco noto, magari chiedendosi se valga la pena andare a rispolverare Carneade e le filosofie ellenistiche, come ci invita a fare Carlos Lévy attraverso uno scorrevole saggio (non certo solo per addetti ai lavori) alla riscoperta di un periodo storico-speculativo di grande rilievo, che si sviluppa tra la morte di Alessandro Magno (323 a. C.) e la fine del regno dei Lagidi in Egitto (30 a. C.).

Ai giorni nostri, d’altronde, si fa un grande uso di aggettivi quali: scettico, epicureo o stoico; tuttavia spesso questi termini vengono utilizzati in modo assai improprio, mediante indebite generalizzazioni o banalizzazioni. Oggi, comunemente, per scettico si intende una persona che non crede a nulla e dubita di ogni cosa; ma la questione non è così semplice. Ad esempio – afferma Lévy – ormai da parte degli studiosi "non si vede più nel pirronismo originario uno scetticismo esclusivamente relativo alla possibilità che l’uomo giunga a conoscere la realtà". Pirrone, considerato il padre dello scetticismo, lo è infatti meno dei cosiddetti neopirroniani, insistendo egli soprattutto sulla esigenza del silenzio (aphasia), da cui può conseguire la serenità (ataraxia), più che sulla necessità di evitare le affermazioni dogmatiche.

Analogamente, nonostante molta gente ritenga che epicureo voglia significare gaudente e dedito ai piaceri, va sottolineato come Epicuro si accontentasse di nutrirsi a pane ed acqua, concedendosi semmai appena il lusso di un boccone di formaggio. Così, entrare a far parte dei seguaci di Epicuro implicava aderire ad uno stile di vita basato "sulla frugalità" ed anche "sull’emulazione nell’esercizio della virtù", poiché scopo principale del Giardino (la scuola epicurea) era di giungere alla felicità liberando gli uomini dalla paura: in primis quella della morte, che secondo il filosofo di Samo non costituirebbe un vero problema, in quanto – a suo dire – quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non siamo più.

Anche sugli stoici il saggio di Lévy contribuisce a fare chiarezza, al di là del luogo comune che vede nel saggio stoico un individuo sobrio, poco credulone ed esperto nel sopportare di buon grado malesseri o avversità. Dei seguaci di Zenone, invece, apprendiamo come essi confidassero in un Dio benevolo e provvidenziale nei confronti degli uomini; per non parlare del fatto che essi credevano nel destino e nella possibilità di prevedere il futuro. Nessuno di loro, precisa in ogni caso Lévy, ha mai nutrito la pretesa di pervenire ad un controllo assoluto del dolore. Sicuramente questa idea di considerarli degli atleti nella sopportazione della sofferenza è nata perché gli stoici romani attraverso l’allenamento a tale pratica di tolleranza esprimevano appieno il loro ideale tradizionale di virtus.

E’ comunque ben altro l’aspetto maggiormente notevole delle filosofie ellenistiche, cioè l’aver dimostrato (lo stoicismo e l’epicureismo, almeno) un’apertura inedita nei confronti dell’altro: fosse esso lo straniero, lo schiavo o la donna. Il loro cosmopolitismo, insomma, unito all’idea di considerare la natura quale norma assoluta e all’anelito nei confronti d’una realizzazione – d’una felicità – intesa come armonia, equilibrio e benessere.

Francesco Roat

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