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redarrowleft.GIF (53 byte) Cultura Aprile 2002  
 

Un viaggio nel Medioevo con testi e immagini
 (visibili attraverso moltissimi link)
IV SETTIMANA DELLA CULTURA VICENZA 15-21 aprile 2002

Miti del Cielo e della Terra: scienza e letteratura alla corte di Ezzelino da Romano, nella Marca Gioiosa e nei castelli dell’Europa medioevale

Lo spazio cosmico solcato da un’astronave

Nel clima nebbioso d’Inghilterra apparve dalle nuvole l’ancora di una nave, la quale dopo aver girato intorno sette volte rimase agganciata sotto un mucchio di pietre.

Spaventata la gente si mise a gridare e in molti notarono la corda muoversi come se qualcuno stesse tentando liberare l’ancora. Però, malgrado tutti gli sforzi, l’ancora non cedette; allora nell’aria densa si udì una voce simile al grido dei nostri marinai quando chiamano l’ancora impigliata. A questo punto i navigatori volanti mandarono uno di loro che scese lungo la fune. Tuttavia il marinaio ‘extraterrestre’, quando aveva già liberato l’ancora, fu afferrato dai presenti e malmenato. Il poveretto morì soffocato dalla nebbia e dalla nostra umida atmosfera. Allora sembra che i marinai celesti si misero a discutere della sorte del loro compagno disperso e dopo un’ora tagliarono la fune e vogarono via.

Così Gervasio di Tilbury riferì -nel 1214- (Otia Imperialia, Decisio I, cap. 13), dell’ arrivo di una misteriosa “nave celeste” e del linciaggio di uno dei suoi occupanti da parte della folla. La “nave celeste” sarebbe giunta sulla Terra proprio navigando in quelle acque sovracelesti immaginate per attenuare l’intenso calore degli attriti delle sfere planetarie che ruotavano nel Cosmo, acque ‘stellari’ di cui però un funzionario imperiale come Goffredo da Viterbo già nel secolo XII negava l’esistenza [1].

Invenzioni prodigiose

Il vascello volante richiama le note di Ruggero Bacone che, nel 1268, chiedeva a papa Clemente IV di sostenere le ingenti spese necessarie alla ricerca scientifica nonché per costruire strumenti e per organizzare biblioteche [2]. Nella lettera al pontefice si chiedeva di sostenere il ‘ragionamento inventivo’ perché “si possono costruire strumenti per navigare senza rematori in modo che le navi, sia per mare che lungo i fiumi, siano condotte con la guida di un solo marinaio ad una velocità maggiore che se fossero piene di rematori. … Si possono fare anche congegni per volare in modo che un uomo seduto nel centro della macchina azioni un congegno per mezzo del quale delle ali costruite artificialmente battano l’aria come se si trattasse di un uccello che vola” [3].

Il sottomarino

Fu Alessandro Magno a trasmettere il mito del re non più solo avido di terre, ma anche insaziabile ricercatore di nuovi orizzonti scientifici. Si trattava di quel leggendario sovrano che “comandò alli suoi ingegneri che facessono una gabbia di vetro molto splendiente sicchè potesse vedere di fuora tutte cose chiaramente. E comandò che la legassono con catene di ferro. E così com’elli comandò fu fatto. Allora montò Alessandro in una nave e missesi in alto mare, poi intrò nella gabbia e fecesi calare intro il profondo del mare <insieme> alli suoi cavallieri di quelli di cui più si fidava. E quivi vidde Alessandro di diverse maniere pesci, e di diversi colori, e molti che si assimigliavano a bestie terrene e andavano per lo fondo del mare quelle bestie <e manicavano frutti d’alberi che nascono nel fondo del mare e quelle bestie> venieno ad Alessandro poi fuggivano immantenente. E anche vi vidde altre maravigliose cose che io non voglio dire imperciocchè non sarebbeno credevoli alli uomini. E quando ebbe tutto questo veduto si fece tirare su …” [4]

Il racconto divenne simbolo del sovrano-scienziato che organizza con metodo le indagini. Infatti Ruggero Bacone esaltò la metodologia sperimentale che è “di due tipi; una è ottenuta mediante i nostri sensi esteriori e per tal mezzo noi facciamo esperienza di ciò che accade in cielo mediante strumenti opportunamente costruiti e di ciò che accade sulla terra mediante ciò che ci testimoniano i nostri organi visivi. Le cose, poi, che non possiamo vedere perché non esistono nei luoghi in cui ci troviamo le veniamo a conoscere per mezzo di altri sapienti che ne hanno fatta l’esperienza. Così fece Aristotele che per incarico di Alessandro Magno inviò duemila uomini nei diversi siti dell’universo allo scopo di avere una conoscenza empirica diretta di tutto ciò che esiste sulla superficie della terra come testimonia Plinio nella sua Storia Naturale” (VIII – 44, (17) [5].

La disavventura del naufrago celeste e i progetti scientifici di Ruggero Bacone come l’avventura del re Alessandro Magno esprimono con efficacia quanto ampio fosse il sistema di relazioni che, nel Medioevo, legava la Terra al Cielo e l’Uomo al Cosmo. Tutti questi rapporti condizionavano i destini della vita dell’uomo e degli stati; pertanto era necessario scrutare gli astri sia per studiarne matematicamente i movimenti sia per divinare il futuro. Gli ampi orizzonti della scienza medioevale sono ben rappresentati dalle leggende che assegnavano all’astrolabio [6] sia la proprietà di fissare correttamente l’altezza di un pianeta a una determinata latitudine sia la capacità di inviare ordini ai demoni celesti [7].

Dai prodigi celesti alle gioie terrestri

La vasta dimensione, mentale e fisica, dello spazio appare dal racconto tramandato dagli Otia Imperialia che trasmette l’intensità della curiosità scientifica di un Medioevo connotato da dimensioni cartografiche estremamente ampie e dalla convinzione dell’esistenza di esseri dalle forme più diverse come testimoniato dai Bestiari e dalle stesse rappresentazioni che figurano sul mappamondo di Ebstorf attribuito proprio a Gervasio di Tilbury.

Altrettanto risulta in analoghe elaborazioni geografiche e tra queste la carta del Salterio di Londra, (British Library, ms. Add. 28681), come il mappamondo di Hereford, la tavola Peutingeriana, l’Atlante di Andrea Bianco del 1436, (Venezia, BN Marciana ms. It. Z, 76 = 4783, f. 10) offrono le dimensioni di uno spazio del Veneto ove -quando appaiono- Verona, Padova, Venezia, Aquileia sono rappresentate come parte di un contesto unitario caratterizzato dalla immensità dell’Adige. Entro questi contorni cartografici si colloca la Marca Amorosa. Terra ben collocata all’interno del patriarcato di Aquileia giacché si legge che:

v'è la marca di Trevigi, ch'è nel patriarcato d'Aquilea, / là ov'egli ha diciotto vescovi, che toccano le parti di /Lamagna, e di Zara e di Dalmazia su 'l mare” [8].

Di questa Terra l’anonimo autore dell’Entrée d’Espagne quando si riferisce alla Marca trevigiana [9] la definisce appunto terra gioiosa. In questo poema franco-italiano del ‘300, l’espressione joiose, in associazione con l’attributo cortois, qualificava il vasto territorio della pianura padana orientale, comprendente le principali città della terraferma veneta, come luogo privilegiato della vita cortese e cavalleresca “in cui tra le insidie e le guerre fiorivano le feste e i tornei” accompagnati dalla “poesia trobadorica” [10].

E ‘Giocosa’ si chiamava la casa di Mantova dove nel 1423 Vittorino da Feltre insegnava ai figli di Gianfrancesco Gonzaga, ‘giocosa’ perchè in quel luogo si studiava e si giocava e perchè alle pareti vi erano dipinti giovani intenti al gioco [11] che trasmettevano quella stessa gioia che si rileva nell’osservare i ragazzi che si tirano le palle di neve negli affreschi della Torre dell’Aquila di Trento [12]. E proprio Gianfrancesco Gonzaga incaricò il Pisanello di decorare la Chiesa di Santa Croce con i cavalieri della Tavola Rotonda che incontrano i nobili mantovani.

E ‘amorosa’ è la tradizione del Decameron di Boccaccio (Decima giornata – Novella V) ove si racconta che in Friuli, paese quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane vi fosse una donna bella e sposata che subiva le pressanti attenzioni di un nobiluomo.

Ora la dama, volendo liberarsi da questa situazione imbarazzante, promise di cedere alle insistenze del corteggiatore qualora ella avesse potuto ottenere -nel mese di gennaio- un giardino pieno di verdi erbe, di fiori, e di fronzuti alberi, non altrimenti fatto che se di maggio fosse. Fu così che messer Ansaldo Gradense si mise in contatto con un nigromante che realizzò per grandissima quantità di moneta uno dei più bei giardini che fosse mai stato visto.

Il poeta esprimeva così quell’entusiasmo che lo colse nel vedere diversi giardini [13] incantati sparsi per un’ Italia medievale dedita alla cura e all’osservazione della Natura. Tra questi parchi spiccava per la sua bellezza quello di Castellamare di Stabia che attrasse anche Carlo I d’Angiò. E testimonianza di questi miti ce la offre lo stesso Chrètien de Troyes che descrive un verziere che “non era cinto né da un muro né da uno steccato, ma solo dall’aria che circondava interamente il giardino per negromanzia, sì che non vi si poteva entrare che per un unico accesso, proprio come se fosse stato cinto da un’inferriata. Vi maturavano fiori e frutti sia d’inverno che d’estate che, per incantesimo, si lasciavano mangiare solo là dentro, e non permettavano che li si portasse fuori. Chi avesse voluto prenderne uno non sarebbe mai riuscito a uscire e non avrebbe raggiunto il varco finché non lo avesse rimesso al suo posto.

...E la terra per tutta la sua estensione non produce spezia o pianta medicinale tale da guarire qualunque malattia, che non attecchisse in quel verziere e non vi crescesse in gran quantità” [14] .

L’atmosfera di una Natura che rende gioiosi i luoghi della Marca connoterà molte dei testi che tramandono le storie delle corti dell’Italia settentrionale.

Tirannia e cortesia nelle città della Marca

Infatti la tradizione del nome felice che designava la Marca Trevigiana si inserì anche nei testi di mago Merlino che profetizzerà:

“la Marca amorosa diventerà dolorosa e Lombardia e Romagna e Toscana ne sentirà e saranno altresì dolorose, ivi appresso che la Marca il suo nome arà cambiato d’amorosa in dolorosa /.../ la Marca amorosa arà uno sì malvagio signore che sarà temuto dalla gente come una folgora.

E sotto la sua signoria non potrà lo padre parlare allo figliuolo né l’uno fratello all’altro per paura della morte: ma egli arà una usanza buona che egli non vorrà in suo’ terre né ladri né traditori ... della sua superbia parlerà tutta Italia e ognuno lo temerà ... ” [15]. Non a caso, in questo contesto, risalta un manoscritto del Roman de Merlin (Parigi, B.N., ms. fr. 15211) ‘visitato’ a Padova dal Petrarca. Non a caso si ripercorre un’alternanza di nomi già presenti nel ciclo arturiano quando Lancillotto “entra nella Dolorosa Guardia; et cacciònne fuore la dama del /castellano et tutta l'altra gente che non volse préndare battesimo; / et rimutò il nome del castello et volse che fusse chiamato / la Gioiosa Guardia; et fe disfare tutti e' loro tempî, et / fêvi fare una ricca et bella chiesa” [16].

Immagini efficaci di affreschi, di cronisti, di testi scientifici e letterari così come di una vasta trattatistica giuridica, che confermano l’idea di queste contrade gioiose espressione che è entrata persino nella toponomastica veneta.

Tutta la Marca appare pervasa da un ideale armonico della vita delle città e degli uomini che si enuclea negli statuti di Treviso del 1313 [17] dove in una premessa si sostiene che la concordia et unitas animorum dei cittadini è una disposizione che dovrà corrispondere ai criteri musicali dell’ armonia canora.

E’ Treviso quella città dove ogni anno si svolgevano le battaglie del Castel d’Amore [18]; proprio nel corso di una di queste iniziative festose -nel 1214- il gioco degenerò in una piccola guerra di Troia. Generalmente si trattava di un appuntamento ludico che vedeva affrontarsi gentiluomini e dame. Per quell’incontro si costruì un finto castello nel quale si fecero prender posto le fanciulle, la struttura era dotata di difese ‘cortesi’: ornamenti d’ogni genere, drappi e baldacchini. Dal loro canto gli assedianti si servirono di proiettili altrettanto ‘gentili’: datteri, frittelle, fiale di balsamo e ogni genere di fiori [19]. Ma in quell’anno la rivalità tra padovani e veneziani degenerò e il gioco licenzioso portò a un vero e proprio confronto armato [20].

Non sempre i giochi erano gradevoli. Alcuni di questi divertimenti assunsero il carattere di una vera e propria danza macabra come quando Alberico da Romano –nel 1250- fece impiccare 25 persone e per far divertire i presenti costrinse trenta donne (le mogli, le madri, le sorelle e le figlie dei condannati) a passeggiare seminude tra le gambe degli impiccati [21].

Le fonti letterarie, al di là delle aspre note di frà Salimbene, sottolineano che la Marca è terra di gran diletti come cantava Niccolò de’ Rossi nel sec. XIV [22] e così Fazio degli Uberti nel Dittamondo:

“Noi trovammo Trevigi, nel cammino, / che di chiare fontane tutta ride/ e del piacer d'amor, che quivi è fino” [23]; ma è terra in cui, per Petrarca, “la bella contrada di Trevigi / Ha le piaghe ancor fresche d'Azzolino” [24], si tratta del ... “ gran Lupo rapace, / crudel Tiranno, Azzolin di Romano, / il quale ancora a tutta gente spiace...” [25].

Dello stesso avviso era stato Fazio degli Uberti che aveva descritto come fosse poco ameno il colle dei da Romano; infatti:

“Tra Asolo e Bascian, da quella proda / un monte sta vedovo e orfanino, / che del peccato altrui poco si loda. / Di lassù scese in quel tempo Azzolino” [26]. Sono queste quelle terre della Marca ove l’opposizione tra crudeltà e cortesia vien messa in risalto da molti commentatori danteschi giacchè si legge:

“In sul paese ec. Cioè, che in sulla Marca / Trivigiana, dove corrono questi due fiumi, cioè / Adige e Po, si soleva trovare liberalitade, magnanimitade, / e cortesia; ma ora nulla si fa di quello; e / questo è stato, poi che Federigo, cioè lo Imperio, / briga ebbe con la Chiesa. Or vi può passare ogni / cattivo” [27].

Si trattava di cattiveria mitigata dalla passione per la lettura in quanto il tiranno era un personaggio che tuttavia indulgeva ai piaceri della vita cortese tanto che nel Novellino si legge che: Messere Azzolino di Romano avea un suo favolatore, al / quale facea favolare la notte quando erano le notti grandi / di verno”.

Una sera però il cantastorie era stanco e cercò di evitare il compito raccontando di un gregge che si trovava a dover attraversare lentamente un guado e quando il narratore, preso dal sonno si interruppe “e non dicea più. Messere Azzolino / disse: / “Andè oltra”. / E 'l favolatore disse: / “Messere, lasciate passare le pecore, poi conteremo il fatto” [28].

I sovrani leggevano o si facevano raccontarie le ‘storie’: Mahaut contessa di Artois inviava nel 1300 i suoi ordini per comprare un Tristano nonché un Roman de Troye [29].

A conferma di ciò sappiamo che “gli inventari delle biblioteche delle grandi dinastie settentrionali – i Savoia, gli Sforza, i Gonzaga e gli Estensi – riportano i titoli dei manoscritti, i libri di conto attestano le spese per la loro acquisizione e la loro conservazione, ma soprattutto le corrispondenze illuminano con vivacità gli aspetti della loro fruizione, in quanto letteratura di evasione che veniva gustata sia nell’intimità della propria camera da letto, sia durante letture ad alta voce in occasione di riunioni mondane, o di lunghi viaggi. Un corollario importante di questo interesse per le storie bretoni fu anche l’uso di trarne lo spunto per la scelta dei nomi di battesimo dei propri figli” [30].

L’ epica permea ogni aspetto della vita medioevale e le storie di Troia appaiono nelle decorazioni che ornano i cavalieri

La dimensione di una vita istituzionale del Medioevo caratterizzata dagli stili della letteratura cortese risulta bene dal privilegio di Bruges in cui la città si sottomette al re Filippo VI: il documento (ms. The Hague, KB, 75 D7) mostra ben miniate sia l’atto di dedizione della città sia alcuni aspetti della vita cortese in cui sono evidenti falconi e musicanti.

L’imitazione dei cicli epici

Per comprendere a cultura delle corti del ‘200 occorre apprezzare quella mentalità fatta di immagini poetiche e architettoniche con cui ci si dilettò ad imitare e a riprodurre eventi della Storia reinterpretati spesso con la mediazione dei cicli epici .

La Chanson de Roland come le imprese dei cavalieri della Tavola Rotonda furono e sono libri affascinanti che furono letti e rappresentati anche nella Marca:le tracce di questa pittura laica sopravvivono nei cicli pittorici della chiesa di Sesto al Reghena [31] (Pordenone), negli affreschi di Treviso (Museo Civico) così come in molti castelli dell’Italia settentrionale.

Spiccano tra queste raffigurazioni artistiche e letterarie: Castel Rodengo (Merano) con il ciclo di Ivano e Castel Roncolo (Bolzano) quest’ultimo costruito anche in forza di un instrumentum del notaio imperiale di Federico II; nelle sale del castello appaiono sia i cicli epici con le rappresentazioni di Carlo Magno [32] e Artù e Tristano sia la descrizione dei giochi con la palla e dei tornei come le scene con musicanti) e falconieri [33].

Altrettanto efficaci sono i cicli figurativi con le storie dei cavalieri della Tavola Rotonda nel castello di Frugarolo (Alessandria) ove c’è un re Artù che istruisce all’arte della falconeria [34].

Cicli questi ripresi anche dalla tradizione manoscritta arturiana così ben appare dal manoscritto di Yale 229 riccamente miniato [35] .

In tutte queste rappresentazioni risultano ricorrenti le immagini naturalistiche, la presenza di scene cortesi; frequentissime le immagini di falconieri che fanno in modo che si possa rappresentare un contesto unitario della vita cortese che ben si lega all’affresco bassanese di Palazzo Finco ove si notano: un giullare con la viella, un giovane misterioso, un Federico II che offre sorridente una rosa a una dama, verosimilmente la regina Isabella, che con un guanto da caccia sorregge un falco [36].

La scena richiama un passo del Tristano ove si descrive una scena gioiosa in cui si trova il principe “nella [camera] della /reina co llei insieme, e la reina arpava e diceva una canzone / ch'ella avea fatta” [37].

I rapporti tra tradizione letteraria e amministrazione delle corti medievali appare intenso e interdipendente: come nei Gei celtici, come nel Perceval e nel Lancelot o nella Vengeance Raguidel i sovrani agiscono come gli eroici cavalieri. I signori accompagnano i loro propositi con ‘voti’ che ne simboleggiano la determinazione: Filippo il Buono –nel 1454- si impegna a non dormire sino a quando non avrebbe sfidato a duello il Turco.

Al tempo stesso la Marca compone la sua tradizione gioiosa con la fama della forza dei suoi cavalieri che vengono reclutati anche da altre regioni. Si legge così che:

“Nel detto anno MCCCXXI i Fiorentini mandarono /in Frioli per cavalieri a soldo, e vennono in Firenze / del mese d'agosto CLX cavalieri a elmo, con altrettanti / balestrieri a cavallo tra Friolani e Tedeschi, molto / buona gente d'arme, ond'era capitano Iacopo di / Fontanabuona grande castellano di Frioli” [38].

In queste immagini pittoriche e poetiche vi è la sintesi della vitalità pensiero politico e scientifico del secolo XIII. Infatti la cultura medioevale si caratterizzò proprio per il vicendevole intrecciò di discipline: i poeti dovevan sapere di scienza così come i giuristi non potevano esimersi dal conoscere la poesia.

Le fonti iconografiche e letterarie evidenziano un mondo del pensiero estremamente interdipendente e lontano da ogni settorializzazione ove poesia, scienza e politica si mescolano fra loro. E le fonti storiografiche legano a radici antiche le tradizioni epiche friulane che raccontano ancora nel Basso Medioevo le imprese del condottiero Maximus che la leggenda vuole sia stato l’avo di re Artù. Infatti nel volgarizzamento dell’opera di Orosio si legge come l’imperatore romano intervenne proprio a Aquileia contro “quello suo nemico grande e crudele, chiamato Massimo, / e che addomandava i trebuti e gli spendi, / solamente per paura del nome delle crudeli genti / di Germania ch' avea seco”  [39].

Poesia e filosofia esaltano le virtù dell’uomo sapiente

Questo intersecarsi di interessi è cantato da Ruggiero Pugliese che vanta la polifilia medievale:

“Tant' aggio ardire e conoscenza / ched ò agli amici benvoglienza /e i nimici tegno in temenza; / ad ogni cosa do sentenza / et ag[g]io senno e provedenza / in ciascun mestiere: / k' eo so bene esser cavaliere / e donzello e bo[n] scudiere, / mercatante andare a fiere, /cambiatore ed usuriere, / e so pensare. / So piatare et avocare, / cherico so' e so cantare, / fisica saccio e medicare, / so di rampogne e so' zollare” [40].

Il tutto risulta bene da un manoscritto che generalmente viene studiato come se i due testi rilegati assieme fossero stati uniti per caso; un chiaro esempio della unitarietà della cultura medievale è rappresentato dal ms. oxoniense della Bodleian Library, Digby 23 che presenta due opere distinte: il commento di Calcidio al Timeo e la Chanson de Roland. Su questa linea anche il ms. Bodley 264 che racchiude diversi libri delle meraviglie tra cui le imprese di Alessandro e i viaggi di Marco Polo.

Testi per noi diversi accomunati già nel sec. XIII da un unico intento dal legatore ed evidentemente dal lettore perchè, come recita una chiosa, in quodam libro in Timeo exortabatur homines ad virtutem (c. 3rA). Si intende evidentemente accostare uella stessa armonia che pervadeva corpi celesti ed elementi caratterizzava anche le gesta di Orlando giacché gli astri influiscono sulle virtù dei cavalieri e gioiscono o patiscono quando il paladino vince o soffre. E difatti nella Chanson con ‘il Sole fu bello’ si segnala la disposizione di Dio a tutelare i cavalieri, si indica dove sta il diritto e dove la ragione; ma quando Orlando muore ‘A mezzogiorno vi sono grandi tenebre: / non v’è chiarore, se il cielo non si fende’ e tutto è accompagnato dai rumori degli uragani e dei terremoti che indicano la fine del mondo.

L’intreccio tra cultura scientifica e letteraria è testimoniato da numerosi manoscritti che circolarono in area patavina e questo dato è rafforzato dalla presenza di poeti della Marca come Uc de saint Circ che avevano studiato a Montpellier, città universitaria nota per gli studi di medicina, mentre Sordello da Goito migrò verso la Provenza dopo il suo soggiorno nella Marca [41].

E che la cultura cortese fosse fondata su di un mescolarsi di discipline è ben testimoniato proprio da Galvano, cavaliere di re Artù. Infatti dell’eroe si racconta che “sapeva meglio di chiunque altro guarire le piaghe”. E quando si accorse di un cavaliere ferito “Vede in una siepe un’erba molto efficace contro i dolori da ferita, va e la coglie”. Poi si avvicina alla damigella disperata e solo dopo aver constato che “il polso è buono, che la bocca e la gota non sono troppo fredde” dice:

“Questo cavaliere, damigella, è vivo, siatene certa: ha buon polso e buon respiro e le sue piaghe non l’ uccideranno. Ho portato un’erba da cui avrà beneficio, credo, che diminuirà i suoi dolori appena l’avrà sentita. Non v’è erba migliore per medicare le ferite.

I libri dicono ch’essa ha tanta forza che se la si legasse alla corteccia di un albero molto vecchio, ma non ancora del tutto disseccato, le radici riprenderebbero vita e l’albero diverrebbe sì sano che sarebbe tutto coperto di foglie e fiori” [42].

La tradizione cortese è intessuta di riferimenti ai trattati di medicina giacchè anche Isotta si mette a curare disperatamente Tristano “e quanto la ferita più medicava più pegiorava” eppure l’intervento disperato alla fine riuscì [43]:

“Isotta si procaccia assa' pur di trovare tutte le cose che a questa / fedita fanno mistiere, e ffecie venire erbe e ffae inpiastri /e ppogli sopra la fedita, sì che Tristano si sentia in poca / d'ora meno dolore.

E disse: «Damigiella, questa medicina /pare che mi guerisca». Ma tanto si procaccia Isotta / che guerio Tristano. E dissegli: «Cavaliere, salteresti tue / ancora?» E Tristano disse che ssie e quella igli dicie: «Or / salta il più che ttue unque puoi ora, che tti voglio vedere». / E allora Tristano sì salta e ssaltoe XXII piedi. / Allora la fedita sì s'aperse e la damigiella sì incomincioe /a medicare Tristano … 

/ Or dicie lo conto che Issotta sì fecie saltare / Tristano perchè no le parea che ffosse bene guerito dela / fedita. Ma da ivi a nove dì Tristano sì fue molto bene guerito / e Isotta gli disse: «Sì salta anche, cavaliere, una /fiata, al più che ttue puoi». E Tristano sì salta e ssaltoe / piedi da XXXII. E allora gli disse Isotta: «Tristano, tu / ssee bene guerito, ma io non vidi unqua cavaliere che / ttanto saltasse quanto voi» [44].

La competenza medica di Isotta nasce da un fallimento di un’altra regina; infatti:

“Essendo questa Isotta davanti allo re suo padre, egli / le disse: - Figlia mia, qui si è uno cavaliere di lontano paese, / il quale èe inaverato sconciamente, e di sua navera non / truova alcuno aiuto nè rimedio di guarire. E però io ti prego, / bella figlia, che tue lo prenda a tua cura; e ciò voglio / facci per lo mio amore. Isotta allora rispuose: - Padre / mio, cotesto farò io molto volontieri - . E se alcuno volesse / saper perchè lo re Languis non diede in cura Tristano a sua / dama, la reina Lotta, la quale era più saputa medica del mondo, / io diròe che dal dì in qua che l'Amoroldo suo fratello / morì, ella non volle più medicare, per grande dolore che ella / avea, chè dal dì medesimo l'avea curato e non lo potè campare; / sicchè per questo ella non voleva più impacciarsi in medichería; / anzi diceva: - Poi ch'io non potei campare lo mio / fratello, non piaccia a Dio che niuno altro io voglia guarire né / curare - ; e per questa tale cagione, medicava alcuna volta / questa sua figliuola Isotta. Dice che mirando Isotta la ferita / di Tristano, tantosto conobbe com'ella era attossicata; e allora / lo medica in altra guisa e maniera; e tanto fece colle sue buone / medicine, che in trenta giorni Tristano fue quasi come /guarito”.

L’esperienza medica così acquisita appare però insufficiente quando Tristano fu ferito a morte e l’insuccesso è sottolineato dal consulto dei medici chiamati da una: “dolente reina Isotta, la quale era assai trista / e dolorata; e sì torna al castello Dinasso, e tanto tosto si mise / nello letto, e assai medici sì vi furono, ma niuno nolli sapea / dare conforto: tanto era la ferita pericolosa. Imperò che sappiate, / che lo colpo che lo re Marco diede a Tristano, sì fu / mortale e pericoloso e molto dannoso” [45].

Linguaggio attento alle terminologie mediche anche quando Yvain preso da follia vede il prevalere della ‘melancolia’ e poi rinsavisce grazie ad un unguento dalle proprietà magiche [46].

E ancora l’intreccio tra medicina amore appare in Lancillotto.

Infatti nell’ambiguo gioco di specchi in cui romanzi sembravano riflettere la vita la quale a sua volta si proponeva di imitare i romanzi, l’oggetto - splendido e ricco di fascino evocativo – tra le mani della dama o del cavaliere rifletteva ad un tempo la vita e il romanzo.

Toccò proprio a Lancillotto, mentre cavalcava con una damigella, scorgere “… una fonte in mezzo a un prato. Sul masso che vi era accanto non so chi aveva dimenticato un pettine d’avorio dorato. Mai un saggio dai tempi di Isore ne vide uno più bello. E colei che se ne era servita vi aveva lasciato tra i denti almeno un mezzo pugno di capelli…”.

Allora Lancillotto desidera regalare il pettine alla damigella “…ma prima di porgerglielo ne trae i capelli con tale delicatezza che non ne spezza neanche uno solo. Mai occhi umani potranno vedere portare tanto onore a una cosa: egli prende ad adorare quei capelli e li avvicina agli, alla bocca, alla fronte e al viso almeno centomila volte; non tralascia alcuna manifestazione di gioia se ne rallegra e si sente arricchito. Infine li ripone sul petto, accanto al cuore tra la carne e la camicia; non li avrebbe barattati con un carro colmo di smeraldi e diamanti. Si sente al riparo da ulcerazioni e da ogni altro male, disdegna elettuari preparati con perle, teriaca o rimedi contro la pleurite…[47]”.

Ecco ben evidente come nella letteratura cortese la forza del simbolo d’Amore garantisce la salute e si tramuta in Scienza segnalando una cultura cortese multiforme e interdipendente.

La ‘ricostruzione’ della Natura

E’ degno di nota che Galvano non solo sia coraggioso, ma abbia letto (e verosimilmente anche Isotta) quei libri [48] che appartengono alla tradizione degli erbari medievali e alla circolazione latina del trattato di Dioscoride cioè di quel medico militare che scrisse in greco il celebre De Materia Medica ove sono descritte e raffigurate circa 600 piante medicinali. In quei disegni miniati si ravvisa l’intento di avere uno strumento utilizzabile e quindi ben ordinato e questo si riscontra anche nel tentativo di raffigurare in modo realistico le piante catalogate così come risulta anche dal codice di Vienna del De materia medica che influì sull’erbario medico del sec. VII (Napoli, BN, ms. gr. 1) e quindi nelle stilizzazioni della copia del Dioscoride del sec. XIII-XIV (Padova, Biblioteca del Seminario, ms. 194). Dal testo del Perceval appare anche l’esistenza di scuole di medicina presso la corte del sovrano. Infatti quando Keu dopo essere stato sconfitto dal cavaliere affascinato dalle gocce di sangue che spiccano sul candore della neve viene soccorso. “Allora il re, che ama il siniscalco, gli invia un dottore esperto e tre damigelle istruite alla sua scuola, che riducono la clavicola e i frammenti dell’osso del braccio che non mancano di bendare” [49]

Dunque contrariamente a quanto notava Dante c’era affinità tra tradizione cavalleresca e letteratura scientifica: Galvano e Isotta avevano letto testi di un mondo che non gli sarebbe dovuto essere affine.

La necessaria diversità tra campi di indagine appare in un passo del Convivio ove si legge:

“Ancora: dare cose non utili al prenditore pure è bene, in quanto / colui che dà mostra almeno sé essere amico; ma non è perfetto bene, / e così non è pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico / uno scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere inscritti / li Amphorismi d'Ipocràs o vero li Tegni di Galieno. Per che / li savi dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a quella / del ricevente, cioè a dire che si convegna con lui, e che [li] sia utile: / e in quello è detta pronta liberalitade di colui che così dicerne / donando” [50].

E proprio gli antichi modelli iconografici degli erbari avrebbero influito su quella tipologia delle immagini tesa a rappresentare ea que sunt sicut sunt e che traspare sia dal De arte venandi cum avibus (ms. Roma, BAV, Pal. lat. 1701) sia dalla cosiddetta Bibbia di Manfredi (ms. Roma, BAV, Vat. lat. 36 e in particolare ms. Torino, BN, E IV 14) opere che circolarono ampiamente nell’ambito svevo e ghibellino. Conforta questa tesi la testimonianza offerta dalle miniature degli ‘erbari gemelli’ (mss. di Vienna cod. 93 e di Firenze, Laurenz. 73.16) frutto dell’editoria scientifica promossa da Federico II e Manfredi.

In tutto ciò se Galvano parla con il linguaggio dei medici, Aimerico –nel prendere in giro Sordello da Goito- ripercorre gli echi arturiani: così Sordello poeta della Marca è un ruffiano, un matto, uno che riesce a prendere un boccale in testa in un modo non s’era mai visto nemmeno ai tempi di re Artù [51].

La critica giocosa e irriverente si accompagnò nella Marca a un atteggiamento di pensiero che non riposava più sulla mera fiducia nei confronti delle ‘autorità’ del passato. Infatti il medico Bruno da Longoburgo, attivo a Salerno e poi a Padova e nella Marca, dichiarò con nettezza, nella sua Chirurgia Magna (terminata nel 1252), che avrebbe seguito il pensiero dei ‘classici’ solo dopo che quei risultati fossero stati confermati dalla ragione e dalla esperienza (testimonio rationis et exercitio ultimo) [52]. Esperienze talora rischiose visto che nel 1290 la corte inglese –itinerante- dovette rimborsare un abitante di Winchester che ebbe la casa bruciata per un incendio esploso a causa di un esperimento del magister e physicus Ralph medico reale [53].

I segni di sventura

In questo quadro tutte le forze della Natura debbono essere ben scrutate perché quando si scatenano appaiono devastanti come nell’occasione del terremoto che colpì il Friuli per punire gli ‘usurai’. Così –nel giorno della conversione di san Paolo- dell’anno 1347 “a ora / ottava e quarta appresso vespro, che viene ore / cinque in fra la notte, furono grandissimi tremoti, / e durarono per ispazio di più ore, i quali non si / ricordano per niuno uomo vivente simili. In prima / in Silici la porta di verso Friuli tutta cadde.

In Udine parte del palagio di messer lo patriarca / cadde, e più altre case; e cadde il castello di / san Daniello in Friuli, e morironvi più uomini / e femmine. Caddono due torri del castello di Ragogna, / e iscorsono infino al fiume del Tagliamento, / così nomato, e morironvi più genti.

In Gelmona / la metà e più delle case sono rovinate e / cadute, e 'l campanile della maggiore chiesa tutto / si fesse e aperse, e la figura di san Cristofano / intagliata in pietra viva si fesse tutta per lo lungo.

Per gli quali miracoli e paura, i prestatori a / usura della detta terra convertiti a penitenzia, / feciono bandire, che ogni persona ch' avesse loro / dato merito e usura, andasse a loro per essa; e / più d' otto dì continuarono di renderla.

In Vincione / il campanile della terra si fesse per mezzo, / e più case rovinarono; e il castello di Tornezzo /e quello di Dorestagno e quello di Destrafitto caddono / e rovinarono quasi tutti, ove morì molta /gente [54].

Studiare, interpretare e rappresentare i segni della Natura appare l’obiettivo di una scienza pluridisciplinare che tentò anche di riprodurre i meccanismi di una machina mundi perchè così si segnalava l’efficacia dell’ imperatore, del dominus Mundi.

Al tempo di Federico II e di Ezzelino da Romano ciascun momento della vita privata e pubblica era organizzato ispirandosi ai principi per cui tanto l’organismo del corpo umano quanto il meccanismo, la machina, della vita sociale rispondevano alle armonie celesti e tutto ciò doveva essere apprezzabile dai cittadini (non a caso gli affreschi astrologici del Palazzo della Ragione di Padova [55] testimoniano una realtà ove la giustizia civile era amministrata in un quadro sovrastato dal diritto celeste).

La rilevanza assegnata dal render pubblica la sintonia con la Natura di chi guida l’Impero fu manifestata dalla messa in opera di veri e propri eventi propagandistici. Un esempio significativo di queste scenografie è quanto accadde -secondo la testimonianza di due cronisti- durante le nozze, combinate dalle trattative di Pier della Vigna (ca. 1190-1249) che per questo fine si recò in Inghilterra [56], tra la sorella del sovrano inglese Enrico III e Federico II.

Gli accordi prematrimoniali furono intessuti tra il novembre 1234 e il febbraio 1235; le trattative iniziarono con una lettera di Federico II ove si premette quanto queste unioni siano necessarie per ottemperare all’armonia della Natura [57].

E quando poi si celebrarono le nozze, nel febbraio del 1235, Isabella d’Inghilterra venne accolta a Colonia dove le strade erano cosparse di fiori e su quel terreno, per excogitatum ingenium, le si fecero incontro delle navi che sembrava che veleggiassero, ma che in realtà eran mosse da cavalli nascosti da onde di seta che coprivano anche i clerici suaviter modulantes [58]. Il cronista evoca qui delle immagini di cui possiamo cercare un riscontro nella sequenza dei disegni che raffigurano nel manoscritto che tramanda le storie di Tristano i preparativi per le nozze con Isotta: in quelle carte si possono osservare navi che accolgono damigelle elegantemente vestite e che imbarcano ceste che fanno intuire la gran festa [59].

Storie d’amore illustrate e cantate come quella di Robin e Marion (Bibliothèque Méjanes Ms. 166 Rés Ms 14; Paris BN fr. 25566) ci fanno ricostruire i caratteri della cultura cortese medievale [60] che fu favorita anche dal re Roberto d’Angiò (1309-1343), figura politica eminente, tra i cui meriti culturali si ricorda la costituzione di una vastissima biblioteca di corte tanto che a Napoli soggiornarono Boccaccio e Petrarca; mentre Marchetto da Padova gli dedicò il Pomerium artis musicæ mensuratæ e Philippe de Vitry un proprio mottetto (riportato nel Codice di Ivrea). E benchè siano piuttosto scarse le notizie sull’evoluzione della musicadurante il periodo angioino; tuttavia è ben noto un lungo soggiorno napoletano di Adam de la Halle, giunto nel 1283 al seguito di Roberto II. Per la corte angioina, che lo ospitò sino alla morte; proprio in quel contesto il musicista compose Le jeu de Robin et Marion, primo esempio di teatro medievale; inoltre Adam dedicò al re Carlo I un incompiuto poemetto epico, Le roi de Sezile [61].

Astrologia e astronomia nella vita pubblica e privata

La cronaca delle nozze di Federico II con la regina Isabella permette di apprezzare una caratteristica della vita cortese che appare sempre attenta ai moti dei pianeti. Infatti i cronisti sottolinearono come l’ Imperatore nella prima notte che passò con la nuova moglie noluit eam carnaliter cognoscere donec competens hora ab astrologis ei nunciaretur. Venne quindi il momento propizio e, consumata carnali commixtione summo mane, l’Imperatore allora si disse certo che il concepito fosse un maschio, il che non fu.

In questo caso le cronache evidenziano la teoria di un Federico II che sentiva la paternità come un dovere di natura. Non a caso le trattative per il matrimonio iniziarono con una lettera dell’imperatore ove si premette quanto queste unioni siano necessarie per ottemperare all’armonia della Natura; infatti: Matrimoniorum sacra solempnia ex institutione divina induxit necessitas. Necessario enim oportebat genus humanum in successorum propagine vivere ne sublatione presentium perpetui casui subiaceret.

E’ pur vero che il discorso e le trattative non tralasciarono di discutere di danari [62], tuttavia l’imperatore svevo esordisce affermando un principio di ordine bioetico. Per di più i testi mostrano un sovrano svevo che a Aquileia si fece singolare finanziatore di una donna che era nota per i suoi parti gemellari tanto da riuscire ad avere ben quarantadue figlioli [63].

Celebrate le giuste nozze Federico II, confortato dai buoni auspici astrali e carnali, si recò a Magonza dove sfruttò l’ottima natura del momento per sviluppare la sua azione legislativa [64] poi espressa nella Constitutio Pacis dove dispose che sub felici nostrorum temporum statu vigeat pacis et iusticiae moderamen.

L’astrologia e l’astronomia erano scienze indispensabili al sovrano e ne orientavano le scelte. Così astrologi come Guido Bonatti e Salione da Toledo furono attivi nella Marca. Proprio in un trattato di Salione si insegna a stabilire secondo criteri astrologici come si possa a rispondere a domande quali: se si avranno figli o meno, in che periodo della propria vita si potrà essere affetti da malattie, se ci si sposerà o meno, come scegliere un itinerario, come si comporterà un re, un amico, un nemico. La tipologia delle domande appare molto simile ad analoghi quesiti riportati nel Liber Introductorius (Oxford, Bodleian Library, ms. Bodley 266) di Michele Scoto astrologo imperiale.

Sempre Salione propone anche come identificare astrologicamente il momento migliore per procreare secondo determinate scelte cosmiche e questo ci riporta alla mente la tecnica utililizzata anche da Federico II dopo il matrimonio con Isabella d’Inghilterra.

Il testo, al di là dell’improbabile validità astrale, appare un valido strumento per tentare di intendere quali fossero le preoccupazioni dell’uomo medievale. Infatti Salione nel rispondere a diversi quesiti: a chi chiede di sapere se un figlio sia legittimo o prodotto da un adulterio, a chi vorrebbe conoscere se il nascituro sarà sapiente o un bruto, come si interpretino i segni del volto nonché gli occhi ytalicorum vel gallicorum, ci fa intendere quali fossero le possibile ansie di chi si recava a chiedere di interpretare i destini celesti. Del resto nel manoscritto si susseguono le domande sulle possibilità di vita di un neonato (se riuscirà a nutrirsi, se crescerà, se morirà subito dopo il parto). si assegna l’influsso dei diversi pianeti sull’indole di ciascun neonato (ad es. Mercurio contribuirà a farne un uomo di legge, di buone qualità oratorie, appassionato alle antiquas res gestas, e quindi dimostrerà un intelletto veloce e avrà molti libri). L’astrologo inoltre insegna a riconoscere i signa: stulticie, ystrionum, fidelitati, scelerum, latronum, fornicationum virorum et mulierum, sodomitarum, impudicicie, castitatis… etc

L’astrologo di Ezzelino appare estremamente attento all’analisi dei temperamenti umani e di come questi possano essere regolati dai pianeti (ad es. quando domina Marte la persona sarà di colore rosso con occhi bianchi di grande statura e naso di notevoli dimensioni, con un buon ingegno, ma con un cuore che lo induce a pensare e a parlar male). In questo contesto si legge come l’influsso del Sole e della Luna in Marte porteranno il nascituro ad avere grandi possedimenti, dignità et habebit auxiliatores et sequaces et scribas et portabuntur vexilla ante ipsum et perficitur mandatum eius a populo [65].

Emerge da queste note l’importanza di una scienza astrologica che per Michele Scoto permetteva ai suoi artefici di conoscere multa secreta Dei e di ottenere posti di prestigio presso magnates et barones perchè riesce a sollevare dalle ansie gli uomini di potere [66].

Ecco perché presso Ezzelino da Romano operava anche Gherardo da Sabbioneta e della sua attività abbiamo testimonianza in un codice della Biblioteca Apostolica Vaticana [67]. Dal manoscritto emerge che l’astrologo nel suo responso, intitolato significativamente De exercitu et bello, escluse come non propizio alla battaglia –sulla scorta dell’auctoritas di Aristotele - il giorno 22 agosto.

Il quesito dovrebbe corrispondere all’azione militare che portò poi Ezzelino a mezzogiorno del 25 agosto del 1259 a lasciare Brescia per tentare di occupare Milano la più ricca ed irriducibile nemica dell' Impero; un analogo quesito fu riferito da Rolandino da Padova per una data successiva al 23 agosto [68]. Con questo vaticinio Gherardo avrebbe dunque annunciato la possibiltà di una sconfitta essendo il quadro astrologico sfavorevole “pro exercitu ficiendo neque pro bello”; infatti Marte si sarebbe trovato in angolo ascendente rispetto allo Scorpione e dunque secondo l’autorità di scienziati come “Hali philosophus” (Ali ibn Ridwan che commentò l’opera di Tolomeo) e degli astronomi Zahel ibn Bishr e di Alkindi in posizione non favorevole alle imprese belliche [69].

E anche per questo che i palazzi del principe sono edifici dedicati al Sole, così sembra esser stato per Castel del Monte che si pensa fosse anche un osservatorio astronomico giacchè la capacità di controllare e leggere gli astri era arte indispensabile al sovrano. Non a caso nel Perceval si mette in risalto che Galvano nel suo peregrinare verrà ospitato in un castello in cui "la sala grande era protetta con arte e incantamento poiché un chierico dotto d'astronomia che la regina vi condusse ha installato nel palazzo macchine tanto meravigliose che mai se ne videro di simili” [70].

Ancora una volta la tradizione letteraria testimonia la vitalità delle esperienze scientifiche applicate alla difesa del sovrano: è il Roman d’Eneas che spiega come Didone avesse difeso Cartagine con una triplice fila di enormi magneti che avrebbero inesorabilmente attratto e bloccato gli uomini armati [71].

La morte dei tiranni

La stessa morte di Ezzelino (1194-1259) assumerà nel cronista Rolandino da Padova il senso di una vittoria della Natura sul tiranno che aveva stravolto le regole del diritto delle genti. Alla sconfitta di Cassano d’ Adda il popolo si radunò con clamore, come talvolta sono soliti fare gli stormi di uccelli garruli e minacciosi.

In quelle drammatiche circostanze la popolazione assisteva ai vani tentativi dei sapienti; vani perché la medicina in qualche caso può allontanare la morte, pur essendo impotente nell’evitarla.

Nonostante tanto affanno arrivò la morte con quel morso finale che altitudinem spernit, potenciam vilipendit, divitis preterit, superbiam calcat pedibus, nobilitatem deridet.

Il cronista, nell’offrire l’impietoso racconto, sottolineò come l’intervento della morte sia portatore di eguaglianza giacchè corpora quoque cuncta sive deformia sive speciosa deformat, suumque dominium infallibile triumphaliter monstrat in cunctis gentis super terram [72].

E ancor più dettagliata, e compiaciuta, fu la descrizione de morte pessima Friderici nella Vita Innocentii IV: infatti l’ imperatore laborans gravibus dissenteriis, frendens dentibus, spumans, et se discerpens, ac rugiens immensis clamoribus, excommunicatus et depositus miserabiliter expiravit /.../ mors enim peccatorum pessima et finis eorum interitur terminatur [73].

Era un destino terribile riservato a chi, non contento di aver costruito latrine e bordelli in luogo delle chiese, aveva coltivato la passione della sodomia.

La morte di Federico II rappresentava così la fine di colui che, come aveva notato il cronista Saba Malaspina, aveva creduto con la sua arte matematica di eguagliare la natura di Dio.

La sofferenza della fine era indirizzata a cancellare materialmente le gioie di chi aveva goduto di beni materiali. Fu così anche per Cangrande della Scala ‘il più gran tiranno dopo Azzolino da Romano’ che per Jacopo della Lana visse e morì percorrendo un itinerario già tracciato dal mago di Federico II, infatti:

fu adempiuta la profezia di maestro Michele /Scotto, che disse che 'l Cane di Verona sarebbe signore /di Padova e di tutta la Marca di Trivigi. Ma come piacque a Dio, e le più volte pare ch'avegna / per lo piacere di Dio e per mostrare la sua potenzia, / e perché niuno si fidi in niuna felicitade umana, che / dopo la grande allegrezza di messer Cane, adempiuti / gli suoi intendimenti, venne il grande dolore, che /giunto lui in Trevigi, e mangiato in tanta festa, incontanente /cadde malato, e il dì de la Maddalena, dì / XXII di luglio, morì in Trevigi, e fune portato morto /a soppellire a Verona, e di lui non rimase né figlio né / figlia legittimo, altro che due bastardi.... [74]. E per di più Cangrande morì durante una festa colpito dallo stesso destino che aveva provocato l’assassinio del conte di Gorizia  [75].

La morte del tiranno fu, nel pensiero medievale, contornata da segni profetici; in tal senso si orienta la chiusura dell’opera di Rolandino: qui si attribuirà ad Ezzelino da Romano un sogno ove con un’immagine efficace appare quanto fosse inscindibile il vincolo tra armonia della Natura e ordine dei Governi.

Infatti in quella visione il colle di Romano cum castro et hedificio cominciò ad elevarsi verso il cielo per poi tramutarsi in neve e dissolversi nel nulla [76]; si annunciava così -con la rottura delle valenze primordiali che connettevano in mixtiones i quattro elementi e quindi con il dissolversi dei composti- la fine del Governo di una famiglia che era stata accusata più volte di aver infranto l’ ordo Naturae [77].

Tuttavia Ezzelino si ribellò anche alla sconfitta e nonostante la clemenza dei vincitori che portarono al suo capezzale i medici più sapienti non permise ai dottori di farsi visitare e infine propriis manibus sua vulnera laceravit [78].

Lo attendeva l’Inferno (If. XII) di Dante, ma lo stesso Immanuel Romano poeta ebraico alla corte dei Cangrande collocava all’ Inferno coloro che usarono la Sapienza per la loro fama e promossero il loro nome sulla terra /.../ perciò a mezzogiorno brancolano nella notte; uomini diversi dai saggi delle nazioni del mondo che scelsero tra tutte le fedi le opinioni che erano giuste e misero al servizio di tutti la loro Sapienza e che sono in Paradiso [79].

E proprio Dante incontrò nel Paradiso (IX, 32) Cunizza da Romano sorella di Ezzelino III donna che sembrò ritenere scandaloso non concedere il proprio amore a chi glielo chiedesse e dunque amò erroneamente gli uomini pur salvandosi perché riuscì ad indirizzare la forza del suo sentire verso Dio riscattando in parte quella ‘terra prava’ che per Dante era la Marca Trevigiana e che per Francesco di Vannozzo era regione che con ‘Aquilea’ era terra ‘rea’.

E che la Marca e il Friuli fossero terre accomunate dai vizi appare in Jacopo della Lana che scrive: “qui biasema gli omini della Marca Trivisana e de Friuli termenadi / da qui' fiumi de che fa mentione: sí caçuti in vitii, che no i / nasse in quelle terre persone de chi dopo la prima vita romagna / fama né mentione, sí che morta la persona morto omne so onore / e fama. E noma la contrada per li soi circustanti, çoè per quella / aqua che è appellada lo Toiamento, che va e termena dall' una / parte, e per quell' altr' aqua che è appellà l' Adige, che va dall' altro / lado e fa so corso” [80].

Gli astri orientarono i destini della Marca e del Friuli tanto che Matteo Villani notò che –per il 1351- il passaggio di una cometa nel segno del Cancro avrebbe provocato devastazioni. Fu allora che “alcuni pronosticarono morte di grandi signori, overo per decollazione, e avenimento di signore. Noi stemmo quell'anno a vedere le novità che più singulari e grandi apparissono onde avere potessimo novelle, e in Italia e nel patriarcato d'Aquilea furono molte dicollazioni di grandi terrieri e cittadini, che lungo sarebbe a riducere qui i singulari tagliamenti. E mortalità di comune morte in quest'anno non avenne” [81].

Un Medioevo multidisciplinare

Il mondo sovraceleste, la scienza, la poesia, la politica appaiono formare un nucleo compatto della cultura medievale volta a cogliere armonie celesti e terrestri.

Ecco perché in una prospettiva che voglia comprendere quanto le mentalità dei sovrani medievali fosse condizionata dalla ‘filosofia della Natura’ si dovrà presentare un ordine della società della Marca Trevigiana fondato su un delicato equilibrio di genti diverse, apparentemente opposte tra loro come gli ‘elementi’, tuttavia tutte unite dal sovrano e dalla passione per i libri cantata da Riccardo di Bury.

E’ questo il quadro offerto da Immanuel Romano [82] che, esaltando la vita di corte di Cangrande della Scala, presentava l’intreccio di popoli e di discipline che caratterizzarono tutta la Marca; così la lettura del Bisbidis può servire da efficace commento dell’affresco del palazzo abbaziale di San Zeno a Verona [83]; infatti il poeta cantava:

...

Baroni et marchesi Di tutti i paesi,
Gentili et cortesi, Qui veddi arrivare.
Quivi Astrologia Con Philosophia,
Et di Theologia Udrai disputare.
Quivi Tedeschi Latini et Franceschi
Fiamengi e Ingheleschi Insieme parlare;
E fanno un trombombe Che par che rimbombe
A guisa di trombe Che pian vol sonare
Chitarre et liuti Viole et fiauti
Voci, alti et acuti, Qui s’odon cantare.

...

Qui boni cantori Con intonatori,
Et qui trovatori Udrai concordare.

...

Quivi babbuini, Romei, peregrini,
Giudei, Sarracini Vedrai capitare.

...

Istruzzi et buovi Selvaggi ritrovi
Et animai novi Quant’ huom pò contare.
Qui sono leoni, Et gatti mammoni;
Et grossi montoni Vedut’ ho cozzare.

...

Qui son altri stati Sì ben divisati,
Che tra li beati Sen può ragionare.

Sono versi straordinari che rendono evidente quanto siano ingiusti e ingiustificati quegli interventi di storici improvvisati (ma anche affermati il che è più grave) che, in questi giorni drammatici, parlano spesso di ‘integralismo medievale’.

Piero Morpurgo

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  • Grandes Chroniques de France, XIVe s. (BNF, FR 2813)
  • Atlas catalan, XIVe s. (BNF, ESP 30)
  • Barthélemy l'Anglais, Livre des Propriétés des Choses, XVe s. (BNF, FR 135)
  • Barthélemy l'Anglais, Livre des Propriétés des Choses, XVe s. (BNF, FR 136)
  • Petites Heures de Jean de Berry, XIVe s. (BNF, LAT 18014)
  • Gaston Phébus, Livre de la Chasse, XVe s. (BNF, FR 616)
  • Bréviaire de Martin d'Aragon, XVe s. (BNF, ROTH 2529)

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  • A Connecticut Yankee in King Arthur's Court.

 

Note:

1 Si rinvia qui a P. Morpurgo, L’armonia della natura e l’ordine dei governi – Studi sulla cosmologia e sulla politica dei secoli XIII-XIV, Micrologus 4, Turnhout – Firenze 2000; ulteriori riferimenti bibliografici in http://www.morpurgo.wide.it; una versione ridotta di questo testo è nella sezione Didattica in http://www.edscuola.com/archivio/didattica/federico_ii.html

2 Sulla tecnologia medievale http://scholar.chem.nyu.edu/~tekpages/Subjects.html sulle invenzioni http://www.smith.edu/hsc/museum/ancient_inventions/hsclist.asp

3 Ruggero Bacone, I segreti dell’arte della natura, F. Bottin trad., Rusconi Milano, 1990, p. 217.

4 G. Grion, ed., I nobili fatti di Alessandro Magno. Romanzo storico tradotto dal francese nel buon secolo ora per la prima volta pubblicato sopra due codici magliabechiani, Bologna 1872,pp. 1-7, 12, 35, 140-143, 160-161; a proposito di questi passi si vedano le note introduttive di Corrado Bologna (e i testi editi) in M. Liborio - P. Dronke, Alessandro nel Medioevo Occidentale, Fondazione Valla, Firenze 1997, pp. 46, 49, il ‘bucefalo’ aveva “la coda come quella del pavone, tutta striata, / e la testa di un bue e gli occhi di un leone I e il corpo di un cavallo” pp. 87, 109.

5 Ruggero Bacone, La scienza sperimentale, trad. it. cit., p. 135.

6Cfr. http://astrolabes.org/

7 Su questi temi si veda il sito Scientific Instruments of Medieval and Renaissance Europe che raccoglie diverse collezioni museali: http://www.mhs.ox.ac.uk/epact/

8 Anonimo [1300], Tesoro di Brunetto Latini volgarizzato [Libri III, IV e V] (Brunetto Latini, I libri naturali del "Tesoro" emendati colla scorta de' codici, commentati e illustrati da Guido Battelli, Firenze, Successori Le Monnier, 1990, p. 28.

9 Canzone di gesta composta tra il 1330 e il 1340 da autore padovano anonimo, in cui si racconta la campagna di Spagna di Carlomagno e dei dodici paladini. Entrée d’Espagne, A. Thomas, ed., Paris 1913, 2 voll. (SATF, 60), vv. : «Je qe sui mis a dir del neveu Carleman | mon nom vos non dirai, mai sui Patavian, |d e la citez qe fist Antenor le Troian, | en la joiose Marche del cortois Trivixan». Sulla delimitazione del territorio designato come Marca Trevigiana in questi versi cfr. F. Torraca, L’Entreé d’Espagne in Studi di storia letteraria, Firenze 1923, pp. 164 e sgg; qui si riprende l’ampio intervento di M. Calzolari, Le contrade gioiose. La tradizione del ciclo bretone in Italia e in Friuli, in F. Cavalli, et al. edd, Atti del convegno. Gli Echi della terra. Presenze celtiche in Friuli, Gorizia, qui si rinvia ai suoi approfondimenti bibliografici cfr. http://www.celtifriuli.it

10 M. Boni, Poesia e vita cortese nella Marca, in Studi ezzeliniani, Roma, Istituto storico per il medioevo, 1963, pp. 163-188.

11 A. Rizzi, Ludus/ludere. Giocare in Italia alla fine del medio evo, Roma-Treviso, Viella, 1995, p. 158.

12 G. Sebesta, Il lavoro dell’ uomo nel ciclo dei mesi di Torre Aquila, Trento, Servizio Beni Culturali, 1996, sub voce Gennaio; cfr. anche http://montaperti.supereva.it/Links_file/links.asp

13 Cfr. sui giardini medievali : http://www.gardenvisit.com/got/6/3.asp e la bibliografia in http://www.msc-smc.ec.gc.ca/airg/pubs/vegarch.pdf. Inoltre http://www.lehigh.edu/~jahb/herbs/medievalgardens.asp. dove si riporta un passo di Alberto Magno contro i giardini del piacere.

14 Chrétien de Troyes, Erec e Enide, trad. it. di G. Agrati e M.L. Magrini, Mondadori Milano, 1983, p. 86.

15 I. Sanesi, La Storia di Merlino di Paolino Pieri, Bergamo 1898, pp. xcv, 36 e 74-75; cfr- P. Morpurgo, La cultura scientifica nella Marca di Ezzelino, in C. Bertelli - G. Marcadella, Gli Ezzelini Signori della Marca nel cuore dell’Impero di Federico II, Milano, Skira, 2001, pp. 157-167, ivi p. 157.

16 La Tavola Rotonda o l'Istoria di Tristano a cura di Filippo Luigi Polidori, Bologna, Romagnoli, 1864, p. 26.

17 B. Betto, ed., Gli statuti del Comune di Treviso, Roma 1984-1986, vol. I, pp. 19-20. Su questi temi cfr. P. Morpurgo, La filosofia federiciana negli Statuti cittadini dell’Italia settentrionale, in C.D. Fonseca - R. Crotti, edd., Federico II e la civiltà comunale del Nord, De Luca, Pavia – Roma, 2001, pp. 485-506.

18 Il soggetto è stato ampiamente rappresentato nel Medioevo si veda ad esempio la collezione di avori al Museo del Bargello di Firenze in http://www.sbas.firenze.it/bargello/index.html con data base.

19 G. Folena, Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, in Storia della cultura veneta, I, pp. 453-562, ivi 515; cfr. Rolandino da Padova, Cronica, I, cap.xiii, in Bonardi, ed., pp. 24-25, in MGH, SS, XVIIII, pp. 45-46; G. Peron, Rolandino da Padova e la tradizione letteraria del castello d’amore, in L. Bortolato, ed., Il castello d’amore. Treviso e la civiltà cortese, Treviso 1986.

20 G. Folena, Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, in Storia della cultura veneta a cura di G. Folena, Neri Pozza Vicenza, I, pp. 453-562.

21 G. Ortalli, Gioco e giustizia nell’Italia di Comune, Viella, Treviso-Roma, 1993, p. 199.

22 Nicolò de' Rossi, Canzoniere Sivigliano, a cura di Mahmoud Salem Elsheikh, Milano-Napoli, Ricciardi 1973, p. 234.

23 Fazio degli Uberti, Il Dittamondo e le Rime, a cura di Giuseppe Corsi, vol. I, Bari, Laterza, 1952, p. 189.

24 Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite, a cura di Angelo Solerti, Firenze, Sansoni, 1909, p. 194.

25 Delle poesie di Antonio Pucci, voll. I-IV, a cura di Ildefonso di San Luigi, in Delizie degli eruditi toscani, tt. III-VI, Firenze, Cambiagi, 1772-1775, p.117.

26 Fazio degli Uberti, Il Dittamondo, p. 170.

27 Ottimo Commento della Commedia (L'), t. II Purgatorio (a cura di Alessandro Torri, Pisa, Capurro, 1827, p. 291.

28 Guido Favati, Genova, Bozzi, 1970, p. 198.

29 M. Vale, The Princely Court. Medieval Courts and Culture in North-West Europe, Oxford, OUP, 2001, p. 209.

30 Cfr. M. Calzolari, Le Contrade gioiose, cit., : P. Rajna, Contributi alla storia dell’epopea e del romanzo medievale. V. Gli eroi bretoni nell’onomastica italiana del sec. XII, in “Romania”, XVII (1888), pp. ;G. Carducci, Della poesia cavalleresca del Medioevo al mezzogiorno d’Europa, in Opere di Giosuè Carducci, Ed. naz., vol. V, Prose giovanili, Bologna 1942, III. Scritti di letteratura e di erudizione, pp. 415-440, spec. pp. 428-429; G. Serra, Le date più antiche della penetrazione in Italia dei nomi Artù e Tristano, in “Filologia Romanza”, II (1955), pp. 225-237; A. Viscardi, Eroi e miti della tavola rotonda, con traduzioni di A. Finoli e C. Cremonesi, Milano, Dalmine, 1960, F. Ferruzzi, I Manodori dalla leggenda alla storia, in I Manodori la famiglia e il territorio, a cura di Gino Badini, Reggio Emilia, Fondazione Cassa di Risparmio, 2001, p. 17 e sgg.

31 G. C. Menis - E. Cozzi, edd., L'Abbazia di Santa Maria di Sesto. L'arte medievale e moderna, Edizioni GEAPprint, Pordenone 2001.

32 Sulla leggenda di Carlo Magno cfr. http://www.bulfinch.org/legends/welcome.html

33 A. Bechtold, ed., Castel Roncolo. Il maniero illustrato, Bolzano, Athesia, 2000, pp. 100, 132-150, 83-85.

34 E. Castelnuovo, ed., Le stanze di Artù. Gli affreschi di Frugarolo e l’immaginario cavalleresco nell’autunno del Medioevo, Milano, Electa, 1999, p. 142.

35 Ulteriori immagini si trovano nel sito http://www.princeton.edu/~lancelot/ della Princeton University che intende organizzare un archivio multimediale su Lancillotto e temi correlati e che rinvia a diversi codici : MS A = Chantilly, Musée Condé 472;MS C = ("Guiot"), Paris, Bibliothèque Nationale de France, fonds français 794; MS E = Escorial, Real Monasterio de San Lorenzo M.iii.21 (Under Construction);MS F = Paris, Bibliothèque Nationale de France, f. fr. 1450 ;MS G = Princeton, Firestone Library, Garrett 125;MS I = Paris, Bibliothèque de l'Institut de France 6138 (formerly 4676) (Under Construction) ;MS T = Paris, Bibliothèque Nationale de France, f. fr. 12560 ;MS V = Vatican, Biblioteca Vaticana, Regina 1725;U = Text of the Foulet-Uitti edition .

36 M. E. Avagnina, Un inedito affresco del secolo xiii a Bassano, Giornata di studi di Storia Bassanese in memoria di Gina Fasoli, “Bollettino del Museo Civico di Bassano”, 13-15 (1992-1994) pp. 75-95.

37 Tristano Riccardiano (Il) (a cura di Ernesto Giacomo Parodi, Comm. testi di lingua, Bologna, Romagnoli-Dall'Acqua, 1896, p. 384.

38 Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di Giuseppe Porta, 3 voll. (I. Libri I-VIII; II. Libri IX-XI; III. Libri XII-XIII), Parma, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore, 1990-1999. lib x cap. 135, p. 335.

39 Giamboni Bono, Delle Storie contra i Pagani di Paolo Orosio libri VII, a cura di Francesco Tassi, Firenze, Baracchi, 1849, p. 503, qui si rinvia all’intervento di Chrys Snyder From Aquileia to Camelot in Gli Echi della Terra... cit.

40 Ruggieri Apugliese, Rime (Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, t. I, pp. 890-911, ivi p. 890.

41 Su questi contatti francoveneti cfr. P. Marangon, Alle origini dell’aristotelismo padovano (sec. XII-XIII), Padova, Antenore, 1977.

42 Chrétien de Troyes, Perceval, trad. it. di G. Algrati e M.L. Magini, Milano, Mondadori, 1993, p. 94; cfr. http://www.mystical-www.co.uk/arthuriana2z/p.asp .

43 Firenze, BNF, ms. Pal. Lat. 556, cc. 18v-19r.

44 Anonimo, Il Tristano Riccardiano a cura di Ernesto Giacomo Parodi, Comm. testi di lingua, Bologna, Romagnoli-Dall'Acqua, 1896.

45 Anonimo, La Tavola Ritonda o l'Istoria di Tristano a cura di Filippo Luigi Polidori, Bologna, Romagnoli, 1864, p. 75; cfr p. 163-164: “E quella notte si riposarono in uno ricco e nobile/  letto; e a quel punto, Isotta, la quale era fine medica, in uno/ punto guarì e sanò Tristano d'ogni pensiere, e rendègli la / vita e la allegrezza”; cfr. anche pp. 172 e 189 e p. 497.

Riferimenti alle erbe in Les deux rédactions en vers du moniage Guillaume : chansons de geste du XIIe siècle. Tome 2 / publ. d'après tous les ms. connus par Wilhelm Cloetta, Firmin Didot, Paris, p. 268.

46 Cfr. http://www.chez.com/littmedievale/Lm044.asp

47 Chrétien de Troyes, Lancillotto, edd. G. Agrati – M.L. Margini, Mondadori Milano 1983, pp. 24-26.

48 Sulla tradizione del ‘noi leggiamo’ in Chrétien de Troyes cfr. F. Bruni, Testi e chierici del medioevo, Marietti, Genova 1991, pp. 137-139.

49 Chètien de Troyes, Perceval, ed. cit., p. 60.

50 Dante Alighieri, Convivio (Il) (a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), 1995, tomi 3. p. 32.

51 Folena, Cultura trobadorica, cit., p. 500.

52 Marangon, Alle origini, cit., p. 55 e n.

53 Vale, The Princely Court, cit., p. 142.

54 Giovanni Villani, Cronica, Ignazio Moutier, voll. I-VII, Firenze, Margheri, 1823, VII, 273.

55 P.L. Fantelli – F. Pellegrini, edd., Il Palazzo della Ragione in Padova, Padova, Editoriale Programma, 1990.

56 J.L.A. Huillard-Bréholles, Vie et Correspondance de Pierre de la Vigne, Paris 1865, Reinheim 1966, pp. 20-23.

57 Le trattative e le relative lettere sono in MGH, LL, II, pp. 307-311.

58 Matteo di Parigi, Ex Cronicis Maioribus, in MGH, SS, XXVIII, pp. 128-131; Ruggero di Wendover, Chronica, H.O. Coxe, ed., London 1831-1844, IV, pp. 333-339

59 Firenze, BNF, ms. Pal. Lat. 556, cc. 31r-32v.

60 Il testo è disponibile in:

http://www.byu.edu/~hurlbut/dscriptorium/aix166/index.html e in http://virga.org/robin/

61 Ulteriori informazioni bibliografiche in:

http://www.chez.com/littmedievale/Lm008.asp

62 Le trattative e le relative lettere sono in MGH, LL, II, pp. 307-311.

63 Antonio Medin, Una redazione Abruzzese della Fiorita di Armannino giudice di Bologna (1325), AIVeneto, LXXVII, 1917-1918, pp. 487-454:

“Come al tempo del dicto Federigho fu una donna in Aquilea la quale mirabilmente fu faconda in generare. In questo tempo [fu] una donna Antonia chiamata de la provinçiad' Aquilea. Costei inançi ch' ella avesse XL anni avea partoriti efacti de Paulino suo marito XLIJ figliuoli. Racontase che mai costei in suo parto ne fece meno de dui ad una volta: ad un corpo ne partorio VIJ, e due fiade ne partorio quando IIIJ e quando IIJe quando dui. Tanto erano simigli quelgli di ciascuno portatoinsiemi che etiamdio dal padre e da la madre dificile a loromolto era a ricognosciarli. Li dicti figliuoli tucti fuorchè [...]vennaro a età perfecta di XXV anni. Fuorono da Federigo imperadorela molglie e 'l marito con tucti loro figliuoli levati et[r]atti d' ogni spesa de comune e tucti loro filgli erano bailiti enutricati a le spese del dicto imperio. Poi diede loro grandi poderie riccheççe, non volendo che i dicti mogli' e marito badassaro altro che a 'ngenerare.

64 E. Kantorowicz, Federico II imperatore, Berlin 1931, trad. it. Milano, Garzanti, 1976, pp. 408-411 e 439-440; T. C. Van Cleve, The Emperor Frederick II of Hohenstaufen, Oxford, Oup, 1972, pp.380-383, cfr. MGH, LL, Const., II, n. 196, p. 241.

65 P. Morpurgo, scheda del ms. di Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. 6, 108, cc. 42v-44r; 52r; 54r; 55r; 69 r ; 74r-76r; 92r in Bertelli-Marcadella, edd., Gli Ezzelini, cit.; cfr. L. Thorndike, A third translation by Salio, in “Speculum”, 32 (1957), pp. 116-117.

66 P. Morpurgo, Note in margine a un poemetto astrologico presente nei codici del Liber Particularis di Michele Scoto, in “Pluteus” 2(1984), pp. 5-13, ivi p. 9.

67 M. Calzolari, scheda del ms. Roma BAV, Vat. Lat. 4083, c. 16 r., in Bertelli-Marcadella, edd., Gli Ezzelini, cit.

68 Cfr. M. Pastore Stocchi, Ezzelino e l’astrologia, in G. Cracco, ed., Nuovi Studi Ezzeliniani, Roma 1992.

69 Cfr. F. Carmody, Arabic Astronomical and Astrological Sciences in Latin Translation, Berkeley 1956.

70 Chrétien de Troyes, Perceval, trad. it. di G. Algrati e M.L. Magini, Milano, Mondadori, 1993, 102.

71 John A. Yunck's translation (Eneas: A Twelfth-Century French Romance), NY: Columbia U Press, 1974, pp. 63-64; vv. 407-440; cfr. Eneas: roman du xiie siècle., J-J Salverda de Grave,ed.,Les Classiques Français du moyen age, 44 and 62, Paris, Champion, 1925-1929.

72 Rolandino da Padova, Chronicon. Lib. xii, in MGH, SS, XIX, 142, in A. Bonardi, ed., in R.I.S.2 VIII/1, Città di Castello 1905-1908, p. 165; su gli aspetti della ritualità legata alla scomparsa dei sovrani si consulti N. Pollini, La Mort du Prince - Rituels funéraires de la Maison de Savoie (1343-1451), Lausanne 1994; D.L. D’Avray, Death and the Prince. Memorial Preaching before 1350, Oxford 1994.

73 A. Melloni, Innocenzo IV. La concezione e l’esperienza della cristianità come “regimen unius personae”, Bologna 1990, pp. 278-279.

74 Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di Giuseppe Porta, 3 voll. (I. Libri I-VIII; II. Libri IX-XI; III. Libri XII-XIII), Parma, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore, 1990-1999, II, p. 694.

75 Nel detto anno 1323 il dì di calen di Maggio, / il conte di Gorizia essendo in Trivigi stato a / nozze e a festa, subitamente morì: dissesi, che / messer Cane di Verona il fece avvelenareGiovanni Villani, Cronica, a cura di Ignazio Moutier, voll. I-VII, Firenze, Margheri, 1823., Libro 9 cap. 200.

76 G. Cracco, Da Comune di famiglie a città satellite (1183-1311), in G. Cracco, ed., Storia di Vicenza, Vicenza, Neri Pozza, 1988, p. 94; Rolandino da Padova, Chronicon, in MGH, SS, XIX; in R.I.S.2,VIII/1, pp. 172-173.

77 Saba Malaspina, Liber Gestorum, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, 2, Napoli 1845-1868, rist. Bologna, Forni, 1976, II, p.224.

78 A. Murray, Suicide in the Middle Ages. The Violent against Themselves, Oxford, Oup, p. 54.

79 Immanuello Romano, L’Inferno e il Paradiso, G. Battistoni, ed., Giuntina, Firenze 2000, pp. 28 e 84.

80 Jacopo della Lana [1328], Chiose alla "Divina Commedia" di Dante Alighieri. Paradiso in La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, vol. III, a cura di Guido Biagi, G. Luigi Passerini, E. Rostagno, U.Cosmo, Torino, UTET, 1939, p. 210.

81 Matteo Villani, Cronica, Firenze, Per il Magheri, 1825, vol. I, L. II, c. xliv, p. 245.

82 Manuello Giudeo, Bisbidis, in C. Cipolla - F. Pellegrini, edd., Poesie minori riguardanti gli Scaligeri, “Bullettino dell’ Istituto Storico Italiano”, 24 (1902), pp. 51-55.

83 F. Zuliani, Gli affreschi del palazzo abbaziale di San Zeno a Verona, in M.S. Calò Mariani, ed., Federico II. Immagine e potere, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 113-115.

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