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redarrowleft.GIF (53 byte) Varie Sport Settembre  2001
 

Non avrai altro sport all’infuori di me

L’Italia del basket può sbaragliare l’Europa. O magari, come è successo in Turchia, perdere malamente. Il volley? Può vincere tre mondiali di fila. E un maratoneta può cadere a terra sfinito dopo 30 chilometri di fatica. Ma sui giornali e in tv si vede solo calcio. Perché per le leggi del mercato globale vale di più una smorfia di Totti che una qualsiasi altra impresa. Medaglie d’oro comprese

La globalizzazione. O meglio, "questa" imperante e contestata globalizzazione, che non è né unica né perfetta, coltiva menzogne e mistificanti alterazioni del reale? Lo sport sembra dirci molto spesso che non è un’impressione sbagliata.

Prendiamo un giorno molto qualsiasi dell’estate italiana raccontato dalla prima pagina della Gazzetta dello Sport. Dunque, c’è il mister turco Fatih Terim che "disegna" un nuovo Milan, con Albertini in campo, Serginho più avanzato, e il connazionale Umit Davala in arrivo dal Galatasaray. C’è Pippo Inzaghi che si gode la Piacenza delle proprie origini come una specie di prepensionato del pallone. C’è Gabriel Omar Batistuta non ancora sazio dei suoi 227 gol italiani. Tornano a far parlare di sé, e del loro Napoli alla deriva, perfino due picareschi separati in casa come "i presidenti-padroni" Ferlaino e Corbelli. Campeggia un Michael Schumacher mai così vicino al record dei gran premi detenuto da Alain Prost. E ancora si aggira sullo sfondo del ciclismo un Marco Pantani che, pensa un po’, si ritira pure al Giro del Friuli. Insomma, tante belle facce e molta roboante celebrità. Ma, quanto a quelle "notizie" che dell’informazione sarebbero il sale indispensabile, nemmeno l’ombra.

Ah, dimenticavamo, una "new" spunta fuori, anche se quasi invisibile: soccombendo di due punti contro la Croazia in uno spareggio di qualificazione degli Europei turchi, l’Italia del basket maschile perde in un colpo solo la faccia, il titolo continentale vinto due anni fa a Parigi, l’ammissione ai Mondiali 2002 di Indianapolis, e il ct Boscia Tanjevic, costretto dalla disfatta ad anticipare le proprie dimissioni. Come dire una specie di catastrofe nazionale per milioni di tifosi e praticanti che in Italia mettono la pallacanestro sul cocuzzolo del proprio mondo.

La Gazzetta dello Sport è un grande giornale. Detto con la devozione dei lettori che, sin dagli anni dell’oratorio e delle figurine raccolte dentro gli album Panini, non hanno più smesso di trovare nella "rosea" una quotidiana ricchezza fatta di notizie, commenti, punti di vista, libera circolazione di idee. Ma, proprio perché la Gazzetta è grande, proprio perché costituisce un’insostituibile "Bibbia" rivolta a chi ama lo sport, i suoi eventi e i suoi eroi, essa diventa autorevole anche per quanto riguarda un certo ordine che la informa, dalla prima all’ultima pagina. Proprio perché fa testo per centinaia di migliaia di lettori, essa si lascia leggere e sfogliare come una sorta di Codice, a cui riferire un Sistema in odore di immutabile eternità.

Ed eccoci al punto. La globalizzazione, "questo" imperante modello di globalizzazione, assegna allo sport un ruolo di sacrale dipendenza da un mercato di riferimento dove a far numero e a pesare non sono i numeri generati dalla passione, bensì quelli determinati dagli indotti economici e pubblicitari. Quello acquistato in edicola è un grande giornale, lo ribadiamo. Pensato però per lettori "clienti" prima ancora che tifosi. Se stessimo alle famose cifre che tanto infiammano i sermoni di professori, opinionisti e sacerdoti dell’economia contemporanea, non ci sarebbe alcun dubbio. I milioni di italiani pazzi per il basket, tutti accomunati dalla sconfitta rimediata sul Bosforo, andrebbero gratificati con squillante diritto di precedenza. Essi costituiscono di gran lunga un segmento più lungo e affollato di quelli aggregabili non attorno al calcio o al ciclismo, bensì agli amarcord di Batistuta, alla saudade piacentina di Inzaghi, e alle incessanti batoste collezionate dall’ex Pirata delle due ruote. Tutte e tre non-notizie nettamente sovrastate dalla forza d’urto della sola "new" degna di tal nome.

Invece no. A malapena in caso di vittoria della nazionale azzurra, il popolo della pallacanestro può sperare in un momentaneo sovvertimento di valori, in base a cui ritrovare i propri trionfi in una copertina condivisa comunque con domenicali dei del pallone adirati per i mancati superpremi promessi dopo lo scudetto, oppure contesi fra presidenti non ancora stanchi di sperperare miliardi. E’ successo nel 1999 a Parigi, quando lo straordinario miracolo compiuto dalla squadra di Myers e Meneghin sortì un clamore tale da occupare le prime pagine dei giornali, e da trascinare la Rai a trasmettere in extremis le dirette degli ultimi incontri, grazie alla magnanimità di Tele+. Di quegli europei la pay-Tv milanese possedeva infatti l’esclusiva, esattamente come di questi, che nemmeno il ruolo di campioni in carica aveva riportato nei palinsesti della Tv pubblica.

La morale della favola rimane quella di un calcio reso tirannico sovrano del mercato (informazione compresa) dalla strapotenza di un affare mediatico-pubblicitario che mette in gioco diritti televisivi, sponsor e "share" da milioni di telespettatori a partita. Le sole eccezioni ammesse da questo, calciocentrico modello di globalizzazione, sono rappresentate dall’automobilismo. Che nell’Italia della Ferrari (e della Fiat) è non a caso l’unico sport in grado di contendere agli stadi del pallone, per una ventina di domeniche all’anno, la leadership di un Sistema fondato sulla ricchezza dell’indotto economico. Il magic moment del motociclismo, accentuato dalla nazionalità italiana dei piloti e non delle marche in gara, risulta assolutamente compatibile con un teorema del genere.

Al di fuori dell’asse calcio-motori si esce di norma solo in occasione delle grandi corse ciclistiche a tappe (il mondo della bicicletta profuma ancora di denaro, anche se sotto la pesante cappa del doping) e delle Olimpiadi, quando le proporzioni mondiali dell’affare, molto prima dei valori sportivi in senso stretto, impongono la copertina perfino a medaglie vinte in discipline da "notizie in breve" come il tiro al piattello, la mountain-bike e il nuoto sincronizzato. In Italia esistono poi le varianti determinate dalle momentanee fortune di uno sport rispetto agli altri, anche se si tratta di exploit che, nei templi della comunicazione di massa, continuano a soggiacere a precise gerarchie di marketing. In tal senso state pur certi che i trionfi di uno sciatore, in grado di influenzare indotti remunerativi come quelli dell’abbigliamento sportivo, terranno la scena con successo maggiore rispetto alle imprese (qui l’ordine è volutamente decrescente) di un tennista, di un centometrista e di un pugile.

Una delle conseguenze generate da questo rigido e globalizzante Sistema (che solo negli Stati Uniti prevede diverse discipline, ma inquadrate in una gerarchia altrettanto chiusa, con football e basket al vertice, seguiti da baseball e hockey su ghiaccio), ricade in Italia sugli sport di squadra, confinati dal calcio a paradossali ruoli da comparse, nonostante i successi ottenuti periodicamente da nazionali come quelle del volley e della pallanuoto. In un quadro così immutabile e inflazionato le sporadiche affermazioni dell’Italbasket non possono perciò che trovare un’eco quasi casuale e disperata, assolutamente estranea al successo popolare di una disciplina che nel nostro Paese gremisce ogni settimana migliaia e migliaia di spettatori negli infuocati palasport delle serie A1 e A2, per non parlare delle autentiche febbri agonistiche di massa provocate da eventi come i play off per lo scudetto o le finali delle coppe europee.

Una volta preso atto di ciò, e in attesa che prima o poi qualcosa succeda (anche se il timore è che accadrà in relazione a un’ineluttabile crisi del calcio, e non a un qualche, "antiglobalizzante" movimento proveniente dal basso, dalla base della cara vecchia passione sportiva), ci si può quanto meno munire di occhialini a raggi x nei confronti della Tv, la quale pretenderebbe di sostenere un proprio naturale adeguamento a presunte leggi dello spettacolo sportivo imposte dall’audience.

Viene in mente un maestro come Renzo Arbore, che quando sente la parolina in questione storce elegantemente il naso, abbozzando una nostalgia per il soppresso "indice di gradimento" dell’allora vituperata, monopolistica Tv in bianco e nero. A prescindere dall’opinabile numero dei "contatti", che dire, tanto per parlare di sport neglettissimi, del primo piano di una fiorettista prima dell’assalto decisivo, dell’eccitante adrenalina sparsa da un testa a testa fra ciclocrossisti, della fantastica danza interpretata dalle ragazze del volley (disciplina di squadra squisitamente femmina), o del thrilling di una maratona che si risolverà in volata? Sono davvero uno "spettacolo" a cui rinunciare, sempre e comunque, nel confronto con Totti che si sistema la fascetta (non quando segna certi gol, per carità) o con Alex Del Piero che inciampa sul pallone per ricordarci come si possono perdere certi titoli europei? Persi, va sottolineato, per formazioni pensate, perfino da un buon uomo come Dino Zoff, obbedendo a un certo modello di globalizzazione. Più gradito a Gianni Agnelli che a Manu Chao.

Stefano Ferrio

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