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redarrowleft.GIF (53 byte) Primopiano Luglio 2001  
 

 Taccuino G8 

II

Genova, 19-07-01

Una signora sta annaffiando una pianta fuori dal suo negozio. È una boutique molto elegante dentro la zona rossa: "Sembra di essere in un film di Fellini", dice rivolta a un'amica. L'altra replica di essere andata in giro con la macchina fotografica perché "una Genova così non la rivedremo più". Per fortuna, dicono in coro. Le domando se ha venduto qualcosa in questi giorni. "Sì, ieri, una cravatta". Quelli che abitano nella zona rossa sembrano tutti spariti. O barricati dentro le case. La sensazione è che nella mente di molti genovesi Genova non sarà più quella di prima. Ci sarà sempre, almeno nel ricordo, quella zona invalicabile. Quel confine imposto – anche se per poco - con forza. Non si finirà più di pensare a "quelli della zona rossa" come a qualcuno di privilegiato, suo malgrado un po' diverso. Anche solo pensare alla frase "vado nella zona rossa" sembra
 come dire "vado a Berlino Ovest". O Est. In via XX settembre, quella che ti porta dritto verso Palazzo Ducale, due immagini inquietanti: un anfibio della polizia parcheggiato  davanti a uno dei probabili luoghi di sfondamento dei manifestanti e, poco più in là, una quarantina di cavalli anti sommossa schierati in due file ai bordi della strada. Mai visto dei cavalli col casco.

Nei 40 minuti che passo al bar a riordinare gli appunti conto 22 poliziotti vestiti da poliziotti (e chissà quanti altri senza divisa) entrare alternativamente a bere caffè e affini. Il gruppo più numeroso è di sei. Per uno che non ha mai visto il centro di Genova, girarla oggi, fra reti e polizia, fa uno strano effetto. Da una parte il senso di averla a disposizione tutta per sé. Dall'altra un senso di imbarazzo, di astrattezza. Quasi di vergogna nel vedersi specchiati in una vetrina con la mappa della città in mano, ormai abituati al rombo degli elicotteri in cielo.

Fra un vicolo e l'altro, uno sbarramento e l'altro, arrivi in via del Campo. Arrivi a "casa" di Fabrizio De Andrè. Al numero 29 c'è il negozio di dischi di Gianni Tissio. Un museo dedicato al cantautore genovese. Dentro, il proprietario sta raccontando a un giornalista com'è andato l'acquisto della chitarra di Fabrizio, comprata a un'asta via internet dagli abitanti di tutta la via. Là dentro il G8 sparisce. Non esiste più.
Gianni ti racconta aneddoti che solo lui conosce della vita di De Andrè e alle cinque, dice che finalmente può accendere gli altoparlanti che faranno cantare l'intera via. E la canzone iniziale non può che essere quella omonima. A un certo punto entra un signore vestito di grigio. È attorniato da sei poliziotti. Cerca il disco dal vivo, l'ultimo, "In Concerto". Vorrebbe comprarlo lì, dentro al museo. Ma il disco è finito. Se ne va coi poliziotti, dopo avere ammirato insieme a noi foto e documenti del cantautore da giovane. Quando esce, Gianni dice: "Un pezzo grosso quello. De Andrè piace proprio ai tipi più diversi", e mi mostra la pagina del quadernone delle firme riempita dalla scrittura sfrontata di Vittorio Sgarbi.

Quando mi chiede se voglio toccare le corde della mitica Esteve, gli dico che mi basta vederla da vicino, ma che toccarla mi sembrerebbe troppo. Troppo per uno che non sa nemmeno strimpellare.

Guardo l'orologio, il tempo è volato, ma non rinuncio a sfogliare i vecchi 45 giri del cantautore. Non ho voglia di reimmergermi nel G8. Né nel global, né nell'anti-global. C'è finalmente un po' di poesia qui. Mi siedo fuori, sui gradini di una casa, a guardare via del Campo.

La sala stampa del G8 è dentro il Porto. Un fortino ulteriore dentro alla blindatura della città. Trionfano i ristoranti: tendoni eleganti, poltroncine in vimini, comode e imbottite. Sembra di stare in un villaggio turistico, mancano solo gli animatori e i giochino aperitivo. Gli aperitivi ci sono invece - e in abbondanza – a disposizione dei giornalisti. E fa un certo effetto mettersi a scrivere e avere sullo sfondo qui accanto le navi dove dormiranno gli otto e il loro seguito.

Roberto Ferrucci

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