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redarrowleft.GIF (53 byte) Primopiano Luglio 2001  
 

La Biennale? Chiamatela Gardaland

Otto ore a Venezia fra i padiglioni della grande mostra di arte contemporanea e le vecchie calli. Un mix di electronic art e palazzi seicenteschi, panchine vere e immondizie finte. Per scoprire, alla fine, che la pittura non esiste più

Ore 10.00, Venezia: scendo dal traghetto a Giardini di Castello e vedo la biglietteria della Biennale deserta mentre mi aspettavo la solita fila. Il biglietto intero costa 25mila lire, quello ridotto15mila (fortuna!! Rientro nel ridotto). Mi addentro nei vialetti e scorgo i primi visitatori sparpagliati tra i padiglioni: niente comitive, tanti single, molte coppie under 30, parecchi giovani. Mi attrae subito il padiglione pubblicitario della Telecom, uno degli sponsor ufficiali, dove nuvole in movimento proiettate ovunque ricordano il desktop di Windows o il paradiso della Lavazza e introducono in quello che pare essere il leit motiv di questa biennale: la videoarte. Di arte elettronica, animazioni, videoscultura, infatti, sono ricchi i padiglioni di ogni nazione. Tanti effetti speciali mi confondono... Sono a Gardaland? No, non c’è Prezzemolino. In compenso però ci sono le 1000 tartarughe, anzi 970 perché 30 sono state trafugate (per forza i book shop non hanno niente della biennale se non i cataloghi; nessuna locandina, non un poster...E che ti porti per ricordo? La tartaruga di plastica dorata del Cracking Art Group di Biella). Per gli autori, la lentezza e la saggezza di questi cheloni millenari giunti dalla preistoria si contrappongono alla vacuità e all’ignavia dell’uomo. A vivacizzare i giardini ci sono anche i pavoni di Alys, metafora degli artisti che si pavoneggiano.

I padiglioni si susseguono: entro e esco in modo quasi spasmodico. Leggo i nomi, guardo, tocco, entro nei possibili pseudo giochi.

In preda a un attacco di patriottismo indugio a lungo nel padiglione italiano e chi ci trovi sulla piattaforma del pensiero? Ma le penseur di Rodin, seduto meditabondo circondato da opere africane, indiane, cinesi...boh...Finalmente vedo un italiano che conosco, Mimmo Rotella: sono fiera di me stessa perché ho individuato il suo decollage senza aver letto prima il nome.

Basta, la voglio smettere di andare a vanvera! Mi rovino, compro il catalogo, cioè il bignami del catalogo, quello da 10mila lire (il catalogo vero costa 100mila…). Il caldo comincia a farsi insopportabile. A ogni punto di ristoro mi faccio ora una Ferrarelle, ora una diuretica Uliveto, ora una gasatissima S. Benedetto. Do una scorsa veloce al catalogo e mi sento preparata a sentire qualche opinione altrui: propongo piccole interrogazioni da seconda media.

Can you tell me at least three names of the seen artists?
Which is the work that it has hit to you more?

Marito e moglie tedeschi: "HO HO HO" (si guardano ridendo come Babbo Natale). "I don’t remember...works? They are too much, i don’t know"

Signora italiana più furba: "Un attimo che guardo sul catalogo"

Io: "non vale"

"L’opera che mi ha colpito di più?...Mah, così sui due piedi non saprei dire"

"E’ già stata all’Arsenale?"

"Sì"

"Il bambino gigante l’ ha visto?"

"No"

(Se vai alla Biennale 2001 e non vedi l’Untitled Boy di Ron Mueck, simbolo della sfinge maschile che soppianta quella tradizionale femminile, o sei cieco o è come andare a Parigi per la prima volta e non vedere la torre Eiffel).

Finalmente adocchio il pollo con la faccia colta e col cartellino "Stampa" che penzola dal completino nero minimalista di Gigli.

"Posso farle una domanda?"

(Vado sul concettuale)

"Cosa ne pensa di questa biennale 2001?"

"Di solito le interviste le faccio io, in ogni modo la potrei definire la biennale delle tre "a" atematica, asfittica, antitetica. Vuole essere la piattaforma dell’attuale umanità e per certi versi lo è. E’ contro la globalizzazione, vuol ripristinare le naturali e individuali realtà spazio-temporali, ma ci riversa addosso tonnellate di arte elettronica e animazione digitale. E tu cosa hai notato?" mi chiede.

"Ehm, che è sparita la pittura"

"E ti dispiace"

"Un po’...non saprei più cosa appendere alle pareti, ma forse una bella Bang of Ouflsen piatta non sarebbe male e un proiettore a volte può far meglio del pittore ...Ma la gente cosa compra? Dove va a finire il mercato dell’arte?"

"Chiedilo a Szeemann"

(Non so chi sia ma faccio finta di niente, poi sul catalogo trovo che è direttore della biennale).

Sto camminando da cinque ore senza mangiare. I bar sembrano spariti, indicazioni zero. Vedo un gruppo di panchine (Dio fa che non siano opere d’arte!). Mi ci butto stremata, ma con una certa ansia: nessuno ci si siede. Finalmente riesco a trascinarmi a una toilette. Dopo tanti bagni finti, riprodotti nei vari padiglioni, che sembravano farmi pssss, speriamo che questo sia vero.

Mi attirano i polacchi. Non chiedetemi perché (si farebbe brutta figura). Trovo splendido il grande pavimento coloratissimo di Leon Tarasewicz: calpestarlo è quasi un sacrilegio, ma dà un estremo benessere ai piedi e agli occhi. Poi ancora tanti altri lavori e vere e proprie proiezioni di immagini che conquistano lo spazio per interpretare in maniera nuova le opere del passato e in particolare quelle di Bill Viola che rivisitano i girasoli di Van Gogh. Cammino ancora molto, dentro e fuori: mi sembra di essere arrivata alla fine perché c’è un ponticello con un canale che taglia in due i giardini. Vedo sacchi di immondizia e, dopo aver osservato quelli di Gavin Turk, il solito dubbio atroce mi assale. Sono veri o finti? (Ho due bottigliette vuote nello zaino, quasi ne approfitto... e se li attaccassi con la chewingum e le lasciassi col trash?) Ma queste cose non si devono neanche pensare.

Dopo le immondizie, si apre uno di quegli scorci di Venezia mozzafiato, quelli che avevano incantato Hesse. L’acqua del mare entra nel canale che taglia i giardini. Se la fissi ti accorgi del gioco iridescente provocato dai guizzi repentini della luce. Il riverbero è nitido; i colori perlacei, azzurri, verdognoli. Mi guardo intorno e mi sembra di essere nella bottega di un vetraio. Credo che l’arte vetraria veneziana sia da ricollegare all’influenza della laguna. Il senso di appagamento è diverso da quello provato negli inquietanti padiglioni: questa è un’opera d’arte che sembra appartenerti. (ma sono pensieri ottocenteschi).

Mi avvio verso l’Arsenale, imponente complesso di cantieri, officine, depositi che ha avuto un grande intervento di recupero in occasione della quarantottesima esposizione internazionale d’arte. Qui il vocabolario si arricchisce di nuovi termini: si costeggiano le Corderie, si entra nelle Artiglierie, si parla di Gaggiandre, grandiosi quartieri acquatici su progetto di Sansovino. Ci si inoltra nel Giardino delle Vergini e nelle Tese cinquecentesche. E’ bello l’Arsenale e sono frastornanti le calli con i panni stesi che fanno tutt’uno con le locandine della biennale. Ma le locandine dove sono? (Nessuno le vende e come si può tornare a casa senza la locandina?).

All’Arsenale Botto&Bruno danno forma all’ingresso delle Corderie con le immagini delle loro tristi periferie e Joao Onofre fa sfilare i suoi modelli che recitano una battuta tratta dal film "Stromboli" di Rossellini, mentre Santiago Sierra colora di giallo i capelli di duecento extracomunitari pagandoli per la prestazione. Poi c’è la splendida videoscultura di Lars Siltberg che lega delle sfere alle mani e ai piedi del suo maestro di judo e lo fa rimanere in equilibrio sul ghiaccio, in acqua e aria. Dulcis in fundo di Nereo Rotelli mille poesie donate da artisti poeti e non poeti di tutto il mondo affisse alle recinzioni "limite invalicabile in ferro che creano il muro mobile della poesia". Fernando Bandini recita "Mi hanno lasciato solo su questa altura/che incrociavano i cervi volanti sulle rotte/azzurre del crepuscolo dopo l’ultimo sparo".

Mi pare bello chiudere, con questi versi, la visita alla Biennale.

Cammino ormai da otto ore ma ce la faccio a arrivare a S. Marco a salutare i piccioni, poi alla ferrovia. Mentre la macchinetta della stazione mi frega le 2500 lire dell’ultima Ferrarelle annunciano il treno in partenza. È un Intercity, non ho il supplemento (chissenefrega?!).

Ho uno scompartimento vuoto, un sogno, mi ci chiudo. L’aria condizionata mi sta creando un ambiente da permagelo. Sono stanchissima e comincio a vedere muschi, licheni e renne.

A Mestre sono già un Findus.

mcp

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