Vai al numero precedenteVai alla prima paginaVai al numero successivo

Vai alla pagina precedenteVai alla prima pagina dell'argomentoVai alla pagina successiva

Vai all'indice del numero precedenteVai all'indice di questo numeroVai all'indice del numero successivo
Scrivi alla Redazione di NautilusEntra  in Info, Gerenza, Aiuto
redarrowleft.GIF (53 byte) Sport Maggio  2001  
 

Palla prigioniera

Pochi gol, partite noiose, botte e nervosismi, vecchi schemi, supersquadre in affanno e provinciali corsare. Anche in Francia e in Italia, che almeno presentano nazionali decenti. Gli altri Paesi? Vincono nelle Coppe europee, ma Bayern e Leeds giocano a chi fa il catenaccio più efficace e il Brasile punta ancora sul vecchio Romario. Insomma sempre più soldi e sempre meno calcio vero. Colpa del "tutto-e-subito" che impera per garantire tv assatanate, sponsor e calendari isterici

Più li fai, e più i conti non tornano. Cominciamo dalla Francia. Improvvisamente, dopo un albo d’oro semideserto per un secolo, diventa campione del mondo nel 1998, e campione d’Europa nel 2000. Si consacra così nella storia del calcio come autrice di uno "slam", mondiale più europeo, riuscito solo alla Germania di Muller e Beckenbauer (in senso inverso, perché vinse prima il titolo continentale, e poi quello iridato) nel 1972 e nel 1974.

E’ dunque una Francia che "tremare il mondo fa", neanche fosse quel leggendario Bologna per il quale negli anni ’30 fu coniato il celeberrimo detto. Ma è nello stesso tempo, questa del 2001, una Francia poco diversa, appena un po’ più nobile, quanto a produzione interna di football, della Francia di venti, trenta, quarant’anni fa, quasi sempre destinata a ruoli di damigella d’onore perfino quando giocava Michael Platini, grazie al quale (complice una papera del portiere spagnolo Arconada) vinse, e in casa propria, solo il titolo europeo del 1984.

Oggi ai transalpini bastano i fuoriclasse ingaggiati all’estero per furoreggiare in modo quasi irridente in tutte le passerelle, ufficiali o amichevoli, riservate alle nazionali, oscurando i limiti di una Premiere Division dove, a parte un pugno di "big" con i loro naturali alti e bassi, il livello medio compete con la serie B italiana. Non a caso, anche se ciò fa terribilmente piacere agli amanti del calcio di provincia, in queste due ultime stagioni sono puntualmente giunte alla finale di Coppa di Francia formazioni dilettantistiche da purissimo palla lunga e pedalare: il Calais nel 2000, l’Amiens (che potrebbe addirittura vincere la finale contro il disastrato Strasburgo, neoretrocesso in B) nel 2001. E non a caso il neopromosso Lilla ha conteso l’attuale scudetto a Nantes e Lione fino a tre giornate dal termine del campionato.

Né finisce qui. Sempre questa Francia si avvia a partecipare ai Mondiali 2002 di Seoul e Tokyo con le stimmate della favorita, non scorgendosi nell’attuale panorama dei cinque continenti una nazionale in grado di fronteggiare sulla carta uno squadra con due stelle splendenti al pari di Zidane e Thuram, circondate da un così solido collettivo, dall’elevato tasso tecnico. A dire il vero, se ne intravede una, ed è proprio l’Italia appena presa in dote dal ct Giovanni Trapattoni, dopo la sconfitta patita alla finale europea di Amsterdam, sotto la precedente guida di Dino Zoff, solo per l’indimenticabile golden gol segnato ai supplementari dal francese Trezeguet. Con la quale Italia il discorso incominciato dalla Francia non può che proseguire, rivelando una sua inattaccabile coerenza. Trattasi infatti della medesima Italia calcistica che a livello di club, una volta finito il glorioso ciclo del Milan di Sacchi (e Capello), con la Champions League vinta nel 1994 ad Atene contro il Barcellona, ha cominciato a scivolare lungo la china di un declino inesorabile, intervallato dalla Champions juventina del ’96, dall’ultima Coppa delle Coppe della storia, conquistata dalla Lazio nel ’99 (con conseguente Supercoppa strappata al Manchester United), e dalle due Uefa arrise a Inter e Parma negli anni 1998 e ’99.

Le stagioni di coppe conclusesi nel 2000 e nel 2001 sono state addirittura catastrofiche, con finali rigorosamente negate al made in Italy ed edizioni in corso di Champions’ e Uefa giunte alle semifinali senza alcuna squadra della nostrana serie A. A fronte di questa prolungata Caporetto sul versante dei club, si erge come recente contraltare la parziale rinascita di una nazionale azzurra che, dopo gli sconquassi provocati dalla conduzione di Cesarone Maldini, ha ripreso ad assumere autorevolmente quel ruolo da protagonista già rivestito negli anni ’80 e ’90 con Bearzot, Vicini e Sacchi in panchina. Forte in difesa, dignitosa in mezzo (il punto debole), assolutamente inimitabile in attacco, dove nel 2002 qualcuno fra Vieri Totti Inzaghi Montella Chiesa Del Piero e Roberto Baggio dovrà essere lasciato a casa dal Trap (!), quest’Italia può oggi mettere sotto qualsiasi altra nazionale, Francia compresa. A testimonianza di ciò, all’argento europeo del 2000, il neocommissario tecnico ha subito aggiunto una confortante striscia di vittorie, unite a ragguardevoli prestazioni corali, così come il suo collega Claudio Gentile sembra avere perfettamente ereditato da Marco Tardelli una Under diventata campione d’Europa non più tardi di un anno fa.

Ma, come asserito all’inizio, i conti non tornano. A parte il colore delle divise, quasi identico, gli azzurri italiani e i blues transalpini si avvicinano infatti ai primi mondiali d’oriente accomunati anche da ruoli di favorite per nulla coerenti al calcio attualmente praticato in Italia e in Francia. Dove non sembrano un caso, bensì un segno dei tempi, i titoli nazionali ormai vicini a una Roma cacciata fuori ai quarti della Uefa da un Liverpool appena discreto (sta faticando a qualificarsi per la Champions’ in una Premiere League dove cede il passo perfino all’Ipswich), e a un Nantes che dovrebbe dannarsi per superare l’attuale Piacenza allenato da Novellino, rispettabile capolista della serie B italiana.

Ché in realtà, ed ecco i conti cominciare tristemente a tornare, questo Piacenza "brutto sporco e cattivo" di Ramon Novellino (tanto per usare una metafora ereditata dal western all’italiana) si ritrova poco da imparare, e caso mai molto da insegnare, nel calcio contemporaneo. Vedi il Bayern Monaco, destinato a eliminare il Real Madrid dalla finale della Champions’ praticando un football di noia devastante, puro catenaccio con tre palle a partita lanciate verso le punte Elber e Jancker. Vedi il Brasile, ancorato alle reti del trentacinquenne Romario (suo il pari siglato contro il Perù, ala maracanà!) per arrabattarsi al quarto posto del girone sudamericano di qualificazione ai mondiali. Vedi la simpatia straordinaria di un Alaves che si gioca la Uefa contro il Liverpool grazie all’abilità dimostrata nell’assemblare presunti campioni come Jordie Cruijff mandati a "rottamare" dagli squadroni spagnoli. Vedi le imprese internazionali ripetutamente compiute da un Galatasaray che, con tutto il bene che si può volere all’entusiasmo del calcio turco, si è affidata per vincere anche al talento di un nonno come il romeno Hagi, sfruttato fino alla soglia del ritiro. Vedi le fortune europee di una squadra inglese come il Leeds, difensivista che sembra allenata dall’Oronzo Pugliese, mago anti-retrocessioni dei nostri più operai anni ’60. Dovesse giocarsi la Champions’ in finale con il Bayern, si rischierebbe di andare ai rigori sullo zero a zero e con tre tiri in porta per squadra.

Meglio fermarsi qui. Perché se in qualche modo tornano, i conti di questo calcio dopato, iperpagato, istericamente sponsorizzato, gonfiato dalla Tv, e costretto a turnover massacranti di partite divise fra campionati, coppe e nazionali, lo fanno nel senso di un’inevitabile improvvisazione dettata dai tempi frenetici di un sistema dove imperano comandamenti agonistico-economici come il "tutto e subito", il "primo non prenderle", il "palla lunga (picchiare) e pedalare", "la legge del più ricco" (e non del più forte), il dilagante "tre-cinque-due" inventato per mascherare il più delle volte un opprimente "cinque-cinque-uno" dove quell’"uno" deve prima di tutto saltare e afferare la palla sul rinvio del proprio portiere (per far salire la squadra, si dice). E, "dopo", può anche segnare.

Stefano Ferrio

np99_riga_fondo.gif (72 byte)

                                           Copyright (c)1996 Ashmultimedia srl - All rights reserved