Vai al numero precedenteVai alla prima paginaVai al numero successivo

Vai alla pagina precedenteVai alla prima pagina dell'argomentoVai alla pagina successiva

Vai all'indice del numero precedenteVai all'indice di questo numeroVai all'indice del numero successivo
Banner di HyperBanner Italia
Scrivi alla Redazione di NautilusEntra  in Info, Gerenza, Aiuto
 
redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Ottobre 2000


I film di ottobre 2000


La tempesta perfetta (The perfect storm) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
George Clooney - Mark Wahlberg - Diane Lane Sceneggiatura Bill Wittliff tratta dal romanzo omonimo di Sebastian Junger Regia Wolfgang Petersen Anno di produzione USA 2000 Distribuzione Warner Bros. Durata 127'

Oltre gli effetti speciali nulla. O quasi. Dopo la visione di questo film anche un bicchiere d'acqua minerale potrà assumere un aspetto sinistro. La tempesta perfetta con tutta la sua retorica, i suoi momenti facili e forzosamente lacrimosi è un filmone impressionante in cui la millenaria lotta tra l'uomo e il mare viene raccontata in maniera epica e al tempo stesso con un occhio di riguardo per i contenuti sociali della storia. Delle colonne d'acqua, delle onde e della tempesta in quanto tale è inutile parlare: non bastano le parole, le foto, le immagini al computer per spiegare quanto il film diretto da Wolfgang Petersen (U-boot 96, Air Force One) sia terrorizzante. 

Mai prima d'ora il cinema aveva raccontato la potenza esplosiva della natura con tanto realismo. E gli attori sono bravi a raccontare la storia (vera e per questo ancora più dolorosa) di pescatori che affrontano il mare per i soldi. Non per avidità, bensì perché con quel denaro guadagnato in ogni suo centesimo possono pagare la scuola dei figli, gli alimenti alla moglie e costruirsi magari un futuro migliore. Uomini rudi, abituati a lottare per vivere facendo i conti con le proprie scelte sbagliate e con gli errori di cui - nella loro vita difficile - è sempre stato loro presentato il conto. Primo tra questi il comandante dell'Andrea Gail, Bill Tyne interpretato da un George Clooney che nonostante abbia coraggiosamente messo da parte i modi e il comportamento da bellone, è ancora più affascinante sotto la coltre ruvida di un uomo di mare disposto a tutto pur di portare a casa quel pesce che significa ricchezza e tranquillità. 

La tempesta perfetta è una pellicola emozionante e dolorosa in cui il trionfo luttuoso della natura sugli esseri umani oltre ad essere un monito è anche il simbolo di un mondo sbagliato, in cui uomini disperati affrontano la morte pur di guadagnarsi esca dopo esca, preda dopo preda, metro d'acqua dopo metro d'acqua una vita degna di questo nome.

Cavalcando con il diavolo (Riding with the devil) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Tobey Maguire - Jewel - Skee Ulrich Regia Ang Lee Anno di produzione USA 1999 Distribuzione FILMAURO Durata 120' 

Erano giovani, erano belli, ma anche cattivi. Erano i Bushwhackers, una fazione autonoma dell'esercito sudista che gioco' a sfiancare i nordisti durante la guerra di successione, attuando metodi da guerriglieri che molto ricordano le fortunate tecniche militari utilizzate dai Vietcong durante le battaglie nella giungla contro l'esercito americano durante la guerra del Vietnam. 

Protagonisti di questa lotta armata privata furono giovani animati da ideali ben definiti, figli di un retroterra culturale conservatore e arretrato: razzismo, intolleranza, religiosità al limite della bigotteria e fiducia smisurata nell'utilizzo delle pistole per 'punire' il nemico. Tutti elementi che sorprendono oggi per non essere mai diventati 'fuori moda' e appartenenti ancora ai paraphernalia della destra di tutto il mondo. Giovani conservatori che il regista Ang Lee (proprio quello de Il banchetto di nozze e La tempesta di ghiaccio) ha scelto tra i volti più amati del nuovo cinema americano: da Tobey Maguire a Skeet Ulrich, dalla cantante Jewel al sempre affascinante Jonathan Rhys Meyers i protagonisti di Cavalcando con il diavolo sono ragazzi dai capelli lunghi che nutrono un profondo disprezzo per gli avversari: rei di volere 'liberare i negri' e di avere la pretesa che tutti sono uguali senza classi sociali e senza credo diversi. Una pellicola molto dura che nel panorama americano e' un evidente metafora dell'idiozia delle sette e dei paramilitari di destra che si pongono in maniera netta contro il Governo centrale di Washington. Ed e' anche un elogio non retorico e tutt'altro che banale contro la moda del separatismo a tutti i costi dallo stato centrale che propone modelli di sviluppo unificanti un'intera nazione. 

Cavalcando con il diavolo con il suo look feroce e con il suo profondo messaggio umanitario di tolleranza e rispetto colpisce per il suo andare contro le mode qualunquistiche di una politica esasperata e strutturata solo su parole e non sui fatti, mentre i suoi protagonisti facendo il verso agli eroi del West cinematografico non compiono grandi imprese, ma evitano di commettere scelleratezze a tutto spiano. Un film emozionante dove tutto è animato da una consapevolezza ultima: il valore della libertà è qualcosa di insuperabile. Ed è proprio perché gli yankees fondano la propria cultura sulla scuola e sulla libertà che deriva dalla conoscenza, dal sapere tutti leggere e scrivere, esprimendo così la loro opinione, sono destinati a vincere. Cavalcando con il diavolo diventa dunque un'evidente metafora di un mondo chiuso, dove giovani dal cuore diabolico sono destinati a diventare una generazione di sconfitti. Per non avere capito il mondo che li circondava e soprattutto per avere osato cavalcare con il diavolo, perdendo contro di lui l'ultima corsa verso la libertà di un mondo nuovo e giusto.


Road trip {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Breckin Meyer - Sean William Scott - Amy Smart - Paul Costanzo Sceneggiatura Todd Philips & Scot Armstrong Regia Todd Philips Anno di produzione USA 2000 Distribuzione UIP Durata 93'

Erede e al tempo stesso in qualche maniera emulo di Animal House, Road Trip campione di incassi negli USA arriva in Italia con la sua carica di simpatica ironia e di facile divertimento. Un film semplice, essenziale e a tratti frizzante che tenta di aggiornare all'anno Duemila i personaggi dell'indimenticabile classico con John Belushi. Certo, il demenziale è praticamente lo stesso, con una vistosa virata verso il politicamente corretto (cinture di sicurezza allacciate, poco alcol, droghe leggere) ma la belle ragazze sono molto più svestite e una certa voglia di trasgredire comunque le regole, rende Road Trip un film poco più che gradevole, da vedere, godere e dimenticare. 

Una marcia in più a questa pellicola viene data dalla storia che movimenta un po' i fidanzamenti lunghi o di una sola notte che - in genere - animano i film ambientati al College. La storia del ragazzo che sbaglia cassetta da inviare alla fidanzata di una vita distante quasi tremila chilometri è abbastanza originale, soprattutto quando il pubblico cade nei vari tranelli tesi dalla regia che propone i suoi incubi come l'azione reale della storia. Così abbiamo varie possibilità nello scoprire come la fidanzatina ideale riceverà il pacco che contiene il filmato del tradimento del suo boyfriend con la nuova fiamma conosciuta nella sua stessa facoltà. Road Trip con i suoi milioni di dollari di incasso avrà segnato i botteghini americani, ma non certo le vite del pubblico. 

Animal House resta un classico ancora insuperato anche per il suo essere oggi irresistibile. Certo, la mancanza di un emulo di John Belushi potrebbe essere un motivo valido, ma più probabilmente il tutto è dovuto all'incapacità delle nuove generazioni di realizzare un film che sia in qualche maniera libero di non doversi confrontare con la sua scomoda e prestigiosa eredità.

The cell {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Jennifer Lopez - Vince Vaughn - Vincent D'Onofrio Sceneggiatura Mark Protosevich Regia Tarsem Singh Anno di produzione USA 2000 Distribuzione Nexo Durata 95'

The cell è un film visivamente lussureggiante. Una pellicola emozionante in cui l'amalgama di immagini e situazioni è letteralmente emozionante. Certo, la trama di una psicologa che grazie ad una macchina sperimentale riesce ad entrare nelle menti delle persone e nella fattispecie di un serial killer in coma, richiede un atto di fede di natura fantascientifica. Eppure, dopo questo piccolo compromesso ed essere disponibili a perdonare un po' di fretta eccessiva nell'approfondimento dei personaggi, The cell risulta un film davvero interessante in cui perdersi, lasciandosi guidare da una Jennifer Lopez che tra il kitsch e il gusto per immagini forti, ci porta alla volta della conoscenza dei meccanismi agghiaccianti che si muovono all'interno di una mente perversa. Lì la glorificazione delle immagini mescolata ad un'interessantissima struttura di natura vagamente psicoanalitica ci porta a vivere sulla nostra pelle la grana di cui sono fatti i nostri incubi e i nostri sogni. 

La forza dei fotogrammi unita alla sensualità della Lopez ci guida per la prima volta in un viaggio allucinante e credibile nei meandri del cervello di un serial killer. Già, perché la profonda umanità della cantante attrice di origine portoricana fa sì che il film ad un certo punto diventi plausibile e il sentimento di compassione nei confronti del dolore del bambino diventato un efferato assassino per colpa delle violenze subite dal padre da bambino diventa soverchiante anche per lo spettatore più smaliziato. Jennifer Lopez, infatti, riesce a dare corpo ad una sceneggiatura dove il manicheismo di buoni e cattivi lascia spazio a sentimenti semplici dove l'orrore compiuto sulle altre persone, regredisce fino a trovare nell'assassino, il fanciullo impaurito che diventato adulto non ha altra alternativa riguardo come comportarsi. 

The cell non è un film né facile, né immediato, eppure è una pellicola che in qualche maniera fa in modo che lo spettatore si innamori di lei e della sua storia di amore e morte, di sesso e speranza che - in qualche maniera - assomiglia molto alla vita, diventandone una specie di metafora lontana. 

Film {Sostituisci con chiocciola}
Laura Morante - Maddalena Crippa - Monica Scattini - Naike Rivelli Sceneggiatura e Regia Laura Belli Anno di produzione Italia 1999 Distribuzione Lucky Red Durata 93'

Film nel film con un'attrice che vuole tentare la carriera di sceneggiatrice e coglie lo spunto dalle inquietudini e dagli eccessi verbali ed esistenziali delle sue migliori amiche per imboccare una strada nuova. Una pellicola sulle donne di oggi raccontate da tre grandi attrici come Laura Morante, Monica Scattini e da una Maddalena Crippa che ci fa rimpiangere una sua più intensa frequentazione del grande schermo. Tre donne interessanti, tutte a modo loro sensuali e intriganti con i loro malesseri e le loro ansie. Fino a qui tutto bene, il problema che se dal punto di vista tecnico l'azione risulta piatta, il contorno dei personaggi è poco credibile con attori che recitano male guidati da una Naike Rivelli finita decisamente per caso e senza nessuna vocazione a fare l'attrice solo perché ricorda un po' (senza eguagliarne la bellezza) mammà Ornella Muti. 

Film non sarebbe un brutto film se non si percepisse lungo l'intero corso della pellicola, una certa stentatezza nello sfruttare gli spunti divertenti che lungi dall'essere quelli della slapstick comedy si sfaldano drammaticamente in una verbosità eccessiva, risollevata ogni tanto, dalla simpatia epidermica di Gigio Alberti, unico alfiere dell'elemento maschile se non ignorato, di certo perduto. E' vero che gli uomini solo al centro dell'azione e dei pensieri di queste donne i cui nervi sono crollati da tempo, ma è anche vero che questi maschi egoisti e poco sensibili non fanno altro che rendere tutto troppo facile, facendo apparire paradossali se non addirittura patetiche le aspettative di virago sull'orlo dei quaranta, ancora in cerca di quell'amore e di quella fedeltà che al cinema e nei film non si trovano più. 

E' vero, questo è un momento di passaggio e Laura Belli ha avuto il coraggio di raccontare personaggi sgradevoli e non immediatamente simpatici, eppure una fase di transizione meritava un approfondimento maggiore e un'analisi più raffinata visto che si dispone di un cast con tre tra le prime venti migliori attrici di questo bel paese cinematografico che continua a non riuscire a vedersi raccontato come merita.

Nei panni dell'altra (Me, myself I) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Rachel Griffiths - David Roberts - Sandy Winton Sceneggiatura e Regia Pip Karmel Anno di produzione Australia 1999 Distribuzione FILMAURO Durata 92'

Pamela è una giornalista di successo, soltanto che - il giorno del suo compleanno - si accorge di quanto faccia schifo la sua vita privata. Senza un fidanzato, ha toccato il fondo andando a cena con un uomo conosciuto tramite un'inserzione. Così proprio mentre si domanda come sarebbe stata la sua vita se avesse detto sì al grande amore della sua gioventù, la donna viene investita da un'altra persona identica a lei. Anzi proprio una lei che viene da un'altra dimensione dove Pamela ha sposato Robert e vive in una casa con i suoi tre figli, un cane e due pesci rossi. 

Raccontato così Nei panni dell'altra potrebbe ricordare molto Sliding doors, ma in realtà la differenza tra le due pellicole è molto più profonda di quanto possa apparire in superficie. Qui non c'entra il Caso, perché l'azione principale è determinata dalle scelte e dai rimpianti della protagonista. Un po' come in Aut Aut, testo quasi sacro della filosofia di Kierkegaard, Pamela viene posta di fronte all'immanenza delle proprie scelte e alla possibilità di vivere una seconda occasione. Perché poi? Soltanto per fugare i dubbi del passato e guardare avanti ad un nuovo futuro. Sogno o realtà? Vita splendida o incubo fatto di sotterfugi, compromessi e ipocrisie? Incubo di una notte di tregenda o incrocio tridimensionale con un universo alternativo? Non importa scoprirlo, quanto piuttosto conta che la regista e sceneggiatrice Pip Karmel candidata all'Oscar per il montaggio di Shine, con Nei panni dell'altra sia riuscita a realizzare con pochi mezzi e tante idee geniali una commedia deliziosa e divertentissima incentrata su una storia che oltre a suscitare tante risate principalmente per la grande verve interpretativa di Rachel Griffiths fa riflettere sul significato delle proprie decisioni e sull'inutilità di rimpiangere un passato improbabile e il più delle volte senza senso. 

Un film leggero, ma anche a tratti commovente in cui le scelte di una donna coincidono non tanto con uno stato del cuore, ma con quello della propria anima. La differenza tra le due donne, infatti, non è più data dalle azioni compiute, quanto piuttosto da una disposizione d'animo diversa nei confronti della propria esistenza e di una tolleranza nuova rispetto la quantità di dolore e disillusione che ognuno di noi si trascina dietro. La grande forza di Nei panni dell'altra è quella di non proporre un modello migliore o peggiore, quanto piuttosto di scandagliare con intelligenza e ironia tutte le opzioni di una donna che ha finalmente la possibilità di capire e - in qualche maniera - di scegliere ancora.

Ho solo fatto a pezzi mia moglie (Picking up the pieces) {Sostituisci con chiocciola}
Woody Allen - David Schwimmer - Maria Grazia Cucinotta - Kiefer Sutherland - Sharon Stone - Elliot Gould Sceneggiatura Bill Wilson Regia Alfonso Arau Anno di produzione USA 2000 Distribuzione FILMAURO Durata 93'

Alfonso Arau, già regista di pellicole come Il profumo del mosto selvatico e Come l'acqua per il cioccolato, ha deciso inopinatamente di clonare l'umorismo dell'ultimo Woody Allen, convincendo il regista newyorchese a recitare il solito personaggio in Ho solo fatto a pezzi mia moglie. Il risultato è aberrante. Questo film con un cast davvero notevole è una sequela inutile e tutt'altro che ridicola di parolacce e situazione grevi al punto da fare sembrare un film di Alvaro Vitali una raffinata commedia sociale. 

La storia è quella di un macellaio che uccide la moglie facendola a pezzi perché lo tradisce. Una mano immobilizzata in un gesto alquanto esplicito, staccatosi dal corpo della vittima, viene portata in un paesino del New Mexico dove inizia inaspettatamente a fare miracoli a tutti i fedeli che la venerano in una chiesina 'gestita' (questo è il termine più adatto) da un giovane prete e dalla sua amante che fa la prostituta. Una farsa grottesca in cui l'irrisione gratuita della religione, l'insulto facile e l'oscenità movimentano i comunque noiosissimi novantatré minuti di durata di questo spiacevole film dove tutti - e questo è il vero miracolo della cosiddetta 'mano morta' - recitano malissimo. 

Woody Allen prosegue di gran carriera la sua china in discesa da sessantenne in piena andropausa, mentre la Cucinotta (stupenda come al solito) doppia malissimo se stessa. Poi tra personaggi estremi e questuanti che chiedono alla mano di farsi allungare gli organi genitali, gonfiarsi le tette, far scomparire i brufoli, naufragano i piccoli e inutili ruoli di una Sharon Stone ultravamp e di un Elliot Gould che ha superato da tempo l'ultima fermata del viale del tramonto. Ho solo fatto a pezzi mia moglie è una catastrofe volgare ed uno dei peggiori film della storia del cinema. Un dubbio che deve essersi insinuato lentamente nella mente del regista che - alla fine del film - fa recitare ad Allen un monologo dove si intende che chi non ha apprezzato il film può solo andare a farsi benedire. Davvero un bel modo in sintonia con la mediocre qualità della pellicola per affrontare la realtà complessa del cinema di oggi e per infischiarsene dell'intelligenza (o semplicemente del buon gusto) del pubblico.


Wonder Boys {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Michael Douglas - Tobey Maguire - Robert Downey Jr. - Frances McDormand - Katie Holmes - Rip Torn Sceneggiatura Steven Kloves tratta dal romanzo di Michael Chabon Regia Curtis Hanson Anno di produzione USA 2000 Distribuzione Warner Bros. Durata 116'

"Alle volte bisogna essere salvati…" dice lo scrittore Grady Tripp che ha il volto di un dimesso Michael Douglas, mentre insieme al suo editore interpretato da Robert Downey Jr. nel cuore della notte vanno a prelevare a casa sua 'il ragazzo prodigio' Tobey Maguire. Seguendo i corsi del professor Tripp, a sua volta autore di un romanzo di esordio fenomenale, il giovane James Leer ha, infatti, sviluppato uno stile unico che porta all'inevitabile pubblicazione di The Love Parade, un romanzo che ha stupito sia il suo insegnante, sia l'editore bisessuale che dell'universitario apprezza molte doti. 

Wonder Boys è lontano dall'essere un film perfetto. Strutturato come una commedia caustica e ricca di un dark humour dalla forte matrice colta e intellettuale, potrebbe sembrare noioso a chi non riesca a calarsi in pieno nel raffinato gioco di riferimenti e di sottili allusioni costruito dal regista Curtis Hanson, già autore di L.A. Confidential. Eppure il fascino della crisi del personaggio di Michael Douglas è tale che - alla fine - pur consci di tutte le incertezze stilistiche si finisce per amare alla follia questo piccolo film, fatto di personaggi eccentrici se non addirittura estremi. Cosa si può dire, infatti, del ruolo carico di autoironia di Douglas che incarna alla perfezione lo scrittore in blocco (di idee), ormai diventato anziano che da anni scrive il suo secondo romanzo (arrivato a pagina 2.100) e non sa più fermarsi, perché ha paura di non essere all'altezza di se stesso. 

Del resto tutta le azioni del professore-scrittore evidenziano la difficoltà di scegliere e la mancanza di volontà da parte sua di affrontare in maniera attiva la vita. Sua moglie lo ha mollato, la sua amante - moglie del rettore - è incinta e lui pur amandola non sa che fare, il libro che scrive da anni è sempre lì a crescere a dismisura e lui come un 'novello Penelope' disfa il telaio della sua vita, semplicemente lasciandosi scivolare tra le strade di Pittsburgh. Sarà l'incontro con il suo discepolo, cleptomane, bugiardo eppure geniale, a cambiare tutta la sua esistenza in poche giornate di pura follia. Eppure - e questo è il messaggio del film - l'importante non è tanto sapere quale strada si vuole seguire, ma con chi si vuole percorrerla e così si finisce per essere salvati anche da chi non sa nemmeno di averci provato.


U - 571 {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Matthew McCounaghey - Harvey Keitel - Jon Bon Jovi Sceneggiatura e Regia Jonathan Mostow Distribuzione UIP Durata 120'

Le suggestioni dei film legati alla seconda guerra mondiale rivivono in U-571 nuovo film diretto da Jonathan Mostow autore di Breakdown con Kurt Russell, interamente realizzato nei suoi interni nel mitico teatro 5 di Cinecittà utilizzato da Federico Fellini per alcuni delle sue opere film più famose. Il film racconta la storia degli sforzi della Marina Militare americana per recuperare nel 1942 da un sottomarino tedesco in avaria (l'U-Boot 571 del titolo) un complicato macchinario in grado di decifrare il codice segreto Enigma tramite il quale Berlino dirigeva gli attacchi della sua flotta sottomarina ai convogli alleati. 

Con circa 150 miliardi di lire di budget, il film prodotto dall'ottantenne Dino De Laurentiis (impegnato in questi giorni nelle riprese di Hannibal) vuole seguire il solco dei film bellici dell'ultima generazione, tracciato prima da Salvate il Soldato Ryan di Steven Spielberg e in seguito portato avanti da La sottile linea rossa diretto da Terence Malick con George Clooney, Sean Penn, Woody Harrelson, Ben Chaplin e John Travolta. Protagonisti di U-571 sono Matthew Mc Counaghey, Bill Paxton, il cantante Jon Bon Jovi alla sua prima vera esperienza cinematografica e Harvey Keitel impegnati in questa pericolosa missione di spionaggio militare ad alto livello, che li vede più volte mettere a grave rischio la propria vita in cambio della possibilità di decifrare i codici segreti della marina del Reich. 

Un film basato su un canovaccio di storie vere, realmente accadute durante la guerra, realistico anche se un po' slegato nella sua narrazione, che proprio come nelle pellicole degli anni Cinquanta mette in risalto lo spirito dei combattenti piuttosto che gli effetti speciali. Un film necessariamente erede della cinematografia legata alle imprese dei sommergibili che ricorda necessariamente idee e situazioni di altri famosi film ambientati sui sommergibili: innanzitutto U-Boot 56 di Wolfgang Petersen, il classico hollywoodiano Duello sul fondo con Glenn Ford e soprattutto i più recenti Caccia a Ottobre Rosso di John McTiernan con Alec Baldwin e Sean Connery e il drammatico Allarme rosso che vedeva un duro confronto tra Gene Hackman e Denzel Washington all'interno di un sottomarino americano con la possibilità di scatenare la Terza Guerra Mondiale. 

E il risultato della pellicola è estremamente realista, come era negli intenti del suo autore Jonathan Mostow che - all'inizio - aveva pensato di coinvolgere nel progetto Michael Douglas e che adesso afferma soddisfatto: "Il mio sogno era sempre quello che chi è stato realmente in guerra all'interno di un sommergibile, trovasse del tutto realistico il film". Per la realizzazione del lungometraggio la produzione si è avvalsa di una macchina costosissima per gli effetti speciali: il ginball ovvero un'enorme culla mobile sulla quale è stato appoggiato il modello lungo sessantasette metri del sommergibile capace di imprimere alla scena le variazioni del piano mobile. Effetti speciali semplici, ma essenziali per raccontare una battaglia mozzafiato in cui l'intelligenza strategica ha perfino più valore della forza bellica degli avversari



La strada per Eldorado (The road to Eldorado) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Film d'animazione Sceneggiatura Ted Elliott & Terry Rossio Regia Eric Bergeron & Don Paul Anno di produzione USA 2000 Distribuzione UIP Durata 90'

Più facile rispetto a Il principe d'Egitto e diretto ad un pubblico di bambini, La strada per Eldorado racconta una storia divertente e spensierata in cui due simpatici bricconi spagnoli molto simili ai Butch Cassidy e Billy the Kid cinematografici finiti sulla nave del conquistatore sanguinario Cortez, trovano una mappa per arrivare all'Eldorado. Prigionieri di quest'ultimo, i due riescono a scappare grazie all'aiuto imprevisto di un cavallo da guerra di nome Altivo. Finiti sulla terraferma riescono davvero a raggiungere la metropoli dorata e il gran sacerdote Tzekel-Kan (la voce originale è quella di Armand Assante, mentre in italiano è quella di Eros Pagni, già Frollo ne Il gobbo di Notre Dame) arriverà perfino ad accoglierli come Dei, ma quello sarà solo l'inizio di una serie di avventure disastrose e divertentissime modellate sullo stile unico delle commedie on the road anni quaranta e cinquanta della coppia Bob Hope-Bing Crosby. 

Una trama in cui le vere protagoniste restano l'avventura e l'amicizia e non - come apparentemente potrebbe sembrare - una smisurata cupidigia nei confronti dell'oro. Il tema mitico dell'Eldorado, riletto in chiave molto simile stavolta allo stile classico della Disney, porta così questo film su un terreno più convenzionale rispetto al suo predecessore anche se qualità di questa pellicola d'animazione è e resta assolutamente elevatissima. La strada per Eldorado è un cartone animato molto brillante ingentilito dalla stupenda colonna sonora cantata da Elton John sui testi delle canzoni scritti da Tim Rice, il paroliere che insieme a Andrew Lloyd Webber ha realizzato composizioni del calibro di Jesus Christ Superstar. 

Una pellicola curata nei minimi dettagli con un commento sonoro composto da Hans Zimmer (Il gladiatore, The Rock) per una storia in cui l'azione è determinante. Ed è anche molto piacevole notare che il doppiaggio - come al solito molto curato da parte della UIP - vede due ottimi Alessandro Gassman e Gian Marco Tognazzi ricreare abilmente quello spirito di solidarietà e allegra fraternità che le voci originali di Kevin Kline e Kenneth Branagh riescono a trasmettere. E certo risultava molto difficile dopo il trionfo di pubblico e di critica de Il principe d'Egitto riuscire a centrare un'altra storia che fosse al tempo stesso didascalica e divertente. Invece, Steven Spielberg e Jeffrey Katzenberg proprietari della casa di produzione Dreamworks insieme a David Geffen dopo avere messo da parte l'argomento religioso e i toni celebrativi della megaproduzione incentrata sulla figura biblica di Mosé, sono riusciti a dare abilmente corpo ad una classica storia di amicizia e di avventura, senza cadere nel deja vu.. 

L'elemento della grande amicizia tra i due - decisamente dei veri e propri compagnoni - è il traino dell'intera pellicola d'animazione. Strana coppia: un po' Dean Martin e Jerry Lewis, un po' Walter Matthau e Jack Lemmon i personaggi di The road to Eldorado si trovano coinvolti in un'audace serie di situazioni a metà tra il genere Western e l'avventura pura fatta di cappa e spada, di onore e pistole. Un film d'animazione che in qualche maniera oltre a simboleggiare l'intero senso di gran parte del cinema d'avventura degli ultimi anni è anche l'incarnazione più tangibile del successo riscontrato ancora adesso dal sogno americano. 

"La cosa più importante per me nel fare un film d'animazione"- dice Katzenberg- "è quella di portare la persone in un luogo e un tempo dove non sono mai stati prima. L'ispirazione di questa storia è enorme, grazie alle vestigia di una cultura antica di cui a noi è rimasto qualcosa paragonabile soltanto alla punta di un iceberg. Il film parla del mondo così com'era. E forse chissà un giorno troveremo anche noi quella cascata - aggiunge l'ex Capo della Disney, che dopo una lunga causa ha ottenuto più di duecento milioni di dollari di buona uscita dalla casa di produzione dalle orecchie di topo - "E scopriremo che l'Eldorado esiste ed è ancora lì ad aspettarci."E detto da qualcuno che ha avuto oltre quattrocento miliardi di lire per andarsene, possiamo davvero crederci… E in attesa di andarci fisicamente, questa pellicola rappresenta la migliore maniera possibile per vivere un'avventura spensierata quasi al di fuori del tempo.



L'uomo senza ombra (Hollow Man) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Kevin Bacon - Elisabeth Shue Sceneggiatura Andrew W. Marlowe Regia Paul Verhoven Anno di produzione USA 2000 Distribuzione Columbia Tristar Pictures Durata 114'

Animato dalla regia come al solito pruriginosa di Paul Verhoven, L'uomo senza ombra unisce un tema caro alla fantascienza, alle suggestioni del gentil sesso, con attrici procaci e attraenti che finiscono per diventare più che un oggetto di attenzione per la mente ammalata di un brillante scienziato. Il dottor Sebastian Caine, infatti, guida un progetto segretissimo del Pentagono che studia per fini militari la possibilità di rendere invisibile le persone per un breve periodo per poi riportarle alla visibilità. Quando il progetto sta per essere concluso con successo sugli animali, Caine decide di sperimentare su di sé il siero, ma gli effetti non sono quelli desiderati. L'invisibilità è facile da ottenere in maniera stabile. Quello che non funziona, invece, è il procedimento per tornare indietro. 

Ora, e prendiamole come pulsioni di una mente inopinatamente crollata sotto lo stress derivato di diventare una sorta di cavia (la tematica animalista nel film è fortunatamente molto forte) tutto quello che lo studioso sembrerebbe volere è quello di andare a fare il mandrillo in giro. Con l'ex compagna fidanzatasi ad un suo collaboratore, con la vicina di casa (stupenda, altro che ragazza della porta accanto…) e perfino con le sue collaboratrici che fino a qualche tempo prima non degnava di alcuna attenzione. Ora, il dubbio è lecito: servivano tanti soldi spesi per dare ad un uomo l'alibi per la mano morta e farla franca? Tanti maschi fanno i 'maialotti' in giro nella piena visibilità, quindi - con la tematica antimilitarista tenuta a debita distanza - l'aspetto erotico e sexy della questione sembra prendere così poco spiegabilmente e immediatamente il sopravvento. 

Il resto è un deja vu di cui cambia solo la modalità finale. Lo scienziato impazzisce e sono guai per tutti. L'uomo senza ombra è un film supportato da degli effetti speciali straordinari mescolati ad una sensualità persistente che Verhoven governa nei limiti dei divieti. Complice la sempre bellissima Elisabeth Shue e le altre pupe del film che alleggeriscono con la loro avvenenza un film divertente e - a tratti - anche molto spaventoso.


Dancer in the dark {Sostituisci con chiocciola}
Bjork - David Morse - Catherine Denevue - Peter Stormare Sceneggiatura e Regia Lars Von Trier Anno di produzione Danimarca 2000 Distribuzione LUCE Durata 150'

Sopravvalutato e come al solito irritante con il suo movimento di macchina al limite del voltastomaco (altro che Blair Witch Project!) Lars Von Trier torna al cinema con un'opera decisamente pretenziosa in cui un messaggio postfordista e postmoderno, si perde nei meandri di un musical melodrammatico sullo sfondo di un'America dura, ipocrita ed operaia. Storia di un'emigrata con una malformazione genetica ereditaria che la sta facendo diventare cieca, Dancer in the dark descrive la vita di Selma, operaia con la passione del canto e della danza, che si sfinisce nel lavoro pur di mettere da parte i soldi che consentiranno al figlio adolescente di sostenere l'operazione in grado di salvargli la vista. 

Vittima di un poliziotto locale che vuole in prestito da lei a tutti i costi i soldi per far credere alla moglie di non avere sperperato tutta l'eredità (Jane Austen dove sei…), la donna arriva all'estremo sacrificio pur di fare in modo che il figlio ci veda…tra bulloni e lamiere, infatti, lei sogna ad occhi aperti che la gente si metta a cantare e ballare il tip tap proprio come nei musical americani e cecoslovacchi degli anni Trenta e Quaranta. Una risposta ideale alla domanda che l'uomo innamoratosi di lei le pone quando chiede: "Perché nei musical la gente si alza in piedi e canta?" 

Artificio retorico e con tanto di montaggio grezzo (della serie: il Dogma incontra Fred Astaire…) Dancer in the dark è un film come al solito sgradevole dove il mondo di crudeltà, peccato e sacrificio che costituisce l'universo ideale e immaginario di Von Trier sfronda in maniera micidiale ogni cosa che incontra. La natura della provincia americana è grigia come la squallida fabbrica dove lavorano uomini disperati. Se non fosse per Katherine Denevue a donare un po' di ilarità con la sua mise che sembra appena uscita da Chanel ed invece indossa uno straccio da operaia, il deprimente luogo di lavoro sarebbe ancora più triste. Raccontato con uno stile simile a quello di Metropolis di Fritz Lang, il mondo che dà vita ai dialoghi falsi e a situazioni da moderno e sforzato melodramma è lo sfondo per una pellicola in cui l'aspetto tecnico della regia di Von Trier affonda anche quel poco che c'è di buono nella trama poco credibile e retrò. 

Il musical sulle note cacofoniche delle canzoni di Bjork - poi - lascia spazio al sospetto che questa atroce e non riuscita contaminazione tra il cosiddetto cinema d'autore e il retaggio delle suggestioni delle commedia musicale americana sia soltanto l'ennesimo drammatico passo falso di un cineasta europeo in trasferta negli Usa. Era già andata male a Kusturiça e al primo Wenders, adesso Von Trier peggiora ancora le cose di più con il fallimento del tentativo di fare suo un cinema che - in realtà - non riesce a comprendere. Resta solo da sperare che vada meglio al Pedro Almodovar di The Paperboys interamente girato in Florida e prodotto da Spielberg… 


Kippur {Sostituisci con chiocciola}
Liron Levo, Tomer Ruso, Uri Ran Klauzner, Yoram Hattab Sceneggiatura e Regia Amos Gitai Anno di produzione Israele 2000 Distribuzione MEDUSA Durata 126'


Forse è proprio il caso di fermarsi a riflettere sul caso di Amos Gitai, ex enfant prodige del cinema israeliano con il suo Yom Yom e acceso polemista con il discusso e male impostato Kadosh. La sua ultima opera (così si definisce solo per motivi di opportunità linguistica e non per nobilitare un prodotto estremamente debole) è un lungometraggio frammentario e senza senso, dove di quello che fu oppure non fu sotto il profilo storico la guerra del Kippur tra siriani e israeliani nessuno saprà qualcosa. 

Animato da un umorismo involontario, appesantito da rari dialoghi di una banalità estrema, male interpretati e ancor peggio motivati, questo film di Gitai che vorrebbe costituire una prospettiva sui suoi ricordi di soldato volontario non ha nulla di attraente. L'eterno e reiterato svolazzare degli elicotteri di qua o di là non fa di questo film mediocre anche sotto il profilo meramente cinematografico un prodotto convincente. L'attacco a sorpresa dei siriani nel 1973 durante la festività ebraica del Kippur è raccontato senza annotazioni storiche di rilievo, impedendo che questo film trovi così l'escamotage di potere raccontare di essere un'opera dall'impronta documentaristica. I ricordi del regista affastellati uno sopra l'altro e riproposti in maniera urlata e incapace di coinvolgere il pubblico nel profondo, obbligano a scartare anche l'ipotesi che questa sia un'opera introspettiva, capace di narrare un conflitto di portata continentale seguendo il tenue profilo di emozioni molto personali. 

Infine, e questo è ancora l'elemento più deprimente, Kippur pur insinuando l'idea che la guerra sia una brutta cosa sembra al tempo stesso incapace di attaccare l'insensatezza di un conflitto tra gli stessi discendenti di Abramo (i siriani non si vedono mai…) e il militarismo sfrenato, ossessivo e attualissimo dell'esercito israeliano. Tutto questo manca: restano solo dialoghi senza senso che tracciano quasi dei semplici siparietti tra le immagini di una storia autobiografica sì, ma anche assolutamente irrilevante nel suo proporre il carattere universale di un'interpretazione del tutto personale.

Del resto la cinematografia acerba e semplicistica di cui si è nutre il lavoro di Gitai è assolutamente inadeguata a raccontare qualcosa di troppo doloroso, andando magari un po' più in là del messaggio peraltro assolutamente condivisibile di fate l'amore e non la guerra. Pellicole come Platoon, Salvate il soldato Ryan, La sottile linea rossa, Apocalypse Now! ci hanno abituato a ben altra grammatica visiva per raccontare con tutti i sensi tesi, il dolore, la vergogna, la disperazione e perfino l'eroismo delle persone qualsiasi chiamate a combattere un conflitto giusto o sbagliato che sia. Manca l'elemento di difesa della propria terra presente perfino in film come Il patriota e Il gladiatore. Con un nemico invisibile e con scene dove personaggi appena abbozzati devono darsi molto da fare per rendersi credibili senza poi riuscirci, Gitai scade nella retorica di sentire quasi di possedere il monopolio della verità. 

Eppure, Kippur non solo è un film lento, noioso e animato dall'idea di lanciare un messaggio comunque poco chiaro. E' anche una pellicola fiacca dove tutti recitano male e dove l'elemento autobiografico della narrazione fa perdere di vista al regista l'idea che il pubblico forse non sa nulla di quello che sta vedendo e che forse ci sarebbe ben di più da fare che mostrare una serie spaventosa di situazioni ripetute fino al raggiungimento della nausea da parte di tutti. Diventa così evidente che il caso Gitai, un regista contro tutti, perfino anche contro se stesso e il pubblico da quello che vediamo, forse altro non è che un colossale bluff commerciale dove - in un contesto di un rinnovato interesse verso il mondo ebraico e complice una critica cinematografica estremamente facilona - un autore decisamente poco portato alla narrazione cinematografica ha deciso di cavalcare l'onda lunga di un successo, dovuto agli sforzi seri e di ben altro spessore di qualcun altro. 

Kippur dunque sta lì come un coraggioso eppur fallito tentativo di prendere autocoscienza di una situazione tramite la critica offerta dall'occhio della macchina da presa. Ma sta anche lì a ricordarci che tutto il cinema che abbiamo visto fino ad oggi non può essere dimenticato, ignorato e per certi versi perfino offeso mettendo accanto al nome di Oliver Stone, Francis Ford Coppola, Brian De Palma, Steven Spielberg e Terence Malick quello del tutto non all'altezza di Amos Gitai.

La truffa degli onesti (Ma petite entreprise) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Vincent Lindon - François Berléand - Roschdy Zem - Zabou Breitman Sceneggiatura e Regia Pierre Jolivet Anno di produzione Francia 1999 Distribuzione Lantia Durata 86'

Divertente, ma non irresistibile, La truffa degli onesti e' la storia di come - alle volte - si e' costretti a barare con la vita pur di ottenere quello che ci spetta. Un film piacevole e girato con un gusto tipicamente francese che gioca con le parole e le situazioni per una storia apparentemente nuova dove i tipi classici della commedia d'oltralpe si incontrano e si mischiano con i loro omologhi moderni. Cosi' tra assicuratori russi e amici di origine francese la societa' multietnica segue lo stile comico e ammiccante dei film alla De Funes o alla Fernandel coinvolgendo un numero impressionante di persone comuni in una piccola truffa alla buona. 

Un falegname rovinato da un incendio per cui il suo amico aveva dimenticato di assicurarlo mette su una banda di improvvisati truffatori e questo diventa l'alibi sufficiente per il regista Jolivet per raccontare la societa' senza paracadute sociali in cui viviamo nell'Europa del Duemila. Cosi' il falegname squattrinato, una timida segretaria esperta di computer, un insegnante di ginnastica marocchino provetto scalatore ed un ragazzino dodicenne fortunatamente per loro esperto anche lui in computer e perfino il distratto assicuratore costituiscono improvvisamente questa armata Brancaleone del grimaldello, raffazzonata e impreparata all'impresa sullo stile ingenuo e sempliciotto di buon cuore dei soliti ignoti. Un film diretto ed accattivante nel suo messaggio di richiesta d'aiuto vero sul mondo esterno, mentre racconta quell'epopea degli umili.

m.s.

np99_riga_fondo.gif (72 byte)

                                           Copyright (c)1996 Ashmultimedia srl - All rights reserved