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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Aprile 2000


FILM
Aprile-Maggio 2000

 GLI ALTRI FILM IN PROGRAMMAZIONE

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Kadosh {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Yaël Abecassis - Yussuf Abu-Warda -  Meital Barda- Yoram Hattab Sceneggiatura Eliette Abecassis  - Amos Gitai Regia Amos Gitai Anno di produzione Israele 1999 Distribuzione Mikado Durata 110’ 

Mea Sharim a Gerusalemme. Quartiere della comunità ortodossa in cui si vive nella massima povertà seguendo gli insegnamenti della Torah. Un uomo e una donna non hanno figli e il rabbino obbliga lui a ripudiare l’amata consorte. Un dramma religioso e umano che il regista Amos Gitai utilizza a scopi politici per ribadire la necessità della laicità dello stato di Israele. Una tragedia a fosche tinte dove la vita religiosa raccontata da un laico coincide necessariamente con un grigiore spirituale francamente avvilente. Una pellicola dai toni universali in cui l’equazione, religione = misfatto e fanatismo viene ribadito con una forza quantomeno sospetta. A questo si deve aggiungere la mediocrità di tutti gli uomini di una comunità incapaci di lottare per i loro sentimenti, schiacciati dall’amore ‘inutile’ per un Dio invisibile. Fanatismo e costrizione. Una ricetta aberrante che fa accapponare la pelle e che costringe lo spettatore a inneggiare al laicismo di Gitai come una sorta di panacea e di paradigma politico secondo cui bisogna eliminare comunque dalla vita dello stato chi in nome di Dio è obbligato a compiere piccoli e grandi misfatti. Tutto questo in un film dove nessuno riesce a dialogare davvero con il suo prossimo. Kadosh, però, è e rimane essenzialmente un film di natura politica, che tende a calcare la mano pure di avallare determinate idee di natura religiosa. Poco importa quindi che l’incongruità di alcune scene serva solo a enfatizzare il clima di coercizione e ancora meno conta il fatto che il regista racconti in maniera lugubre ogni singolo aspetto abbia a che fare con la religione. Nessuno può difendere l’aberrazione e la sopraffazione: in nome di qualsiasi cosa esse vengano portate avanti. Eppure, un certo senso di divisione manichea tra buoni e cattivi sollecita lo spettatore a fare suo il dubbio, che il tremendamente deludente film dal punto di vista strettamente narrativo e cinematografico non sia altro che un pamphlet politico senza mezze misure. La giustizia e la verità non possono essere usate a fini politici da nessuno. Gitai si lascia sfuggire i particolari interessanti del dramma dei singoli per postulare una tragedia collettiva. Questo non è cinema, ma un documentario propagandistico ammantato da un’intolleranza altrettanto grave e non ben motivata agli occhi dello spettatore occidentale. Gli elefanti nelle cristallerie lasciano in terra solo dei cocci. E non serve parlare della discriminazione subita dalle donne per guadagnarsi la spada da crociato. Anzi…

Sai che c’è di nuovo? (The next  best thing) {Sostituisci con chiocciola}

Madonna – Rupert Everett Sceneggiatura Tom Ropelewski Regia John Schlesinger Anno di produzione USA 2000 Distribuzione MEDUSA Durata 108’

Madonna e Rupert Everett: due personaggi da copertina, due sex symbols e due dominatori dell’immaginario erotico insieme in un film. Poteva essere un’accoppiata vincente e, invece, tutto si rivela rapidamente un disastro. Non tanto perché la storia di un gay che diventa padre a causa di una notte brava trascorsa insieme alla sua migliore amica non offra parecchi spunti; quanto piuttosto per il fatto che anziché costruire una commedia intelligente, divertente e in grado di lanciare dei messaggi di un qualche valore nei confronti di un pubblico interessato e attento, Sai che c’è di nuovo? scade nella facile tentazione di seguire il percorso prevedibile e ritualmente inutile delle soap operas. Mortificando così l’alchimia creatasi innegabilmente tra i due protagonisti, senza sostituirle nulla di adeguato. Il film cui assistiamo dopo la metà del primo tempo è quello che tutti quanti potrebbero interpretare. Con avvocati ovviamente problematizzanti, sfondi piatti e quella tensione da drammone a puntate di cui francamente è abbastanza piena al televisione per potere pensare di doversela sorbire anche al cinema. Il perché le pur frequenti battute non siano state massimizzate trasformando Sai che c’è di nuovo? in una commedia allegrotta di vecchio stampo, rimarrà un mistero. Questo film – così com’è – è un ibrido didascalico su quello che tutti già sanno: essere dei genitori in gamba è davvero dura per tutti. Eterosessuali o omosessuali che siano. Girare una pellicola con il mero scopo di ribadire tale concetto è assurdo e inutile.

Un bicchiere di rabbia (Um copo de colera){Sostituisci con chiocciola}

Alexandre Borges – Julia Lemmertz Sceneggiatura Aluizio Abranches – Flavio Tambellini tratto dal romanzo omonimo di Raduan Nassar Regia Aluizio Abranches Anno di produzione Brasile 1999 Distribuzione Teodora Films Durata 70’

E’ strano come i presumibilmente grandi film che quest’anno si sono occupati di raccontare anche in maniera impudica il complesso rapporto tra un uomo e una donna, abbiano fallito uno dopo l’altro. Prima il funereo Kubrick con il suo sesso mortuario di Eyes Wide Shut, poi l’altrimenti problematico e insulso L’amante perduto e adesso il deprimente Un bicchiere di rabbia figlio di una letteratura sospetta, piena di vezzi e di plagi che vanno da Shakespeare fino a Tinto Brass. Un raggio di azione vastissimo e improbabile in cui – al di là dello scandalo vero o presunto suscitato dalle scene hard – la balordaggine della pellicola sta tutta in una costruzione, un linguaggio e degli intenti assolutamente artificiosi. La bella giornalista e l’intellettuale eremita che consumano una notte di sesso spregiudicato prima di lasciarsi andare a uno scontro intellettuale sfrenato, non fa sorridere, né tantomeno pensare: annoia e basta. Il sesso esplicito con tanto di musichetta soft di commento da film anni Settanta lascia interdetti per la sua mediocrità. Prodotto di risulta proveniente da un immaginario erotico patinato da rivista cellophanata da comprare di nascosto al giornalaio, Un bicchiere di rabbia si presenta con un deprimente repertorio di facce e boccacce che senza comunicare alcun senso di piacere, fanno sorridere (almeno quelle…) lo spettatore più smaliziato. Il confronto intellettuale (ma per quale motivo vago si scaldano tanto poi?) con toni aulici e fintamente politici è la mazzata finale che ci comunica l’impulso di lasciare il nostro posto e dedicarci a qualcosa di certamente più fruttuoso, remunerativo spiritualmente e stimolante come – ad esempio – portare da mangiare ai gattini o dare le briciole ai piccioni. Un bicchiere di rabbia ha tutte le caratteristiche dei film scandalosi di questi anni: inutilità e prevedibilità. Con in più l’aggravante di risultare un film irrimediabilmente datato. Forse aveva ragione Peter Greenaway a far dire - ne L’ultima tempesta allorché il libro dell’amore compare sullo schermo – “Questo è il libro dell’amore. Di sicuro si sa che all’interno c’è un uomo e una donna, tutto il resto è congettura.” Nassar, autore del libro insieme a Kubrick e al regista Abranches avrebbero dovuto saperlo prima di cimentarsi con una materia tanto difficile e in grado di pretendere fatalmente qualcosa di più, molto di più…

La dea del successo (The Muse) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Albert Brooks – Sharon Stone – Andie Mc Dowell – Jeff Bridges Sceneggiatura e Regia Albert Brooks Anno di produzione USA 1999 Distribuzione FILMAURO Durata 97’

E’ una Sharon Stone allegra e sbarazzina la protagonista di questa commedia leggera e deliziosa che vuole essere essenzialmente una satira del mondo del cinema hollywoodiano. La dea del successo, infatti, mostra le vicissitudini di uno sceneggiatore in crisi costretto a rivolgersi a una discendente delle nove muse pur di centrare il film da Oscar che gli risolverà la carriera. Diviso tra il risoluto fascino domestico della moglie Andie Mc Dowell e la necessità di avere a che fare con la Dea svampita e pretenziosa, l’uomo (l’attore e autore Albert Brooks) utilizzerà la sua ironia per difendersi dalle due donne coalizzate. Un film divertente, fondato su un umorismo estremamente intelligente in cui i pochi istanti in cui si vede Sharon Stone nuda ripagano di per sé qualsiasi spettatore del prezzo del biglietto. In più – poi – è estremamente difficile trovare una pellicola che sia anche una presa in giro raffinata in cui registi come Martin Scorsese, Rob Reiner e il regista di Titanic James Cameron accettino di prestarsi a interpretare dei cameo dove loro sono la parodia di se stessi. Come detto La dea del successo è un film estremamente semplice che farà letteralmente impazzire i cinefili quando la Musa confiderà al povero sceneggiatore di avere avuto lei le idee per pellicole di successo come Truman Show e Titanic. Una trama dai toni vagamente surreali spiegati abilmente in un finale assai originale in cui tutti nodi vengono al pettine e l’ironia pungente di Brooks avrà come bersaglio la creduloneria e la superstizione che dominano nel mondo dello spettacolo. La dea del successo il cui punto di forza sta soprattutto nel grande fascino delle sue protagoniste femminili è una pellicola senza troppe pretese se non quella di allietare il pubblico con una storia vecchio stile (il film potrebbe essere tranquillamente ambientato anche negli anni d’oro del cinema hollywoodiano) tenuta su da una Sharon Stone che messi momentaneamente da parte i vestiti scollati della femme fatale non rinuncia a sedurre il pubblico maschile facendolo divertire. Un dato molto raro visto che di solito le attrici bellissime non sono quasi mai in grado di far ridere il pubblico preferendo cimentarsi con storie sexy o al massimo drammatiche, senza correre così quasi nessun rischio.

Stigmate {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Gabriel Byrne – Patricia Arquette Sceneggiatura Tom Lazarus e Rick Ramage Regia Rupert Wainwright Anno di produzione USA 1999 Distribuzione UIP Durata 100’

Uscito in ritardo per motivi di opportunità legati al Giubileo, Stigmate è un film straordinario che riesce a unire un talento visuale avanzatissimo ad una storia di fantapolitica religiosa estremamente avvincente. Girato con uno stile da videoclip il film vede l’affascinante Patricia Arquette ricevere le stigmate come Padre Pio e San Francesco D’Assisi. Un problema serio per il Vaticano il fatto che un’atea dichiarata, una ragazza come tante, possa ricevere quelli che per eccellenza vengono considerati come segni di santità. La congregazione per le cause dei santi invia così un suo emissario a Detroit per indagare. L’uomo che ha il fascino malinconico ed intrigante di Gabriel Byrne venuto a contatto con la giovane, oltre a subirne l’inevitabile fascino percepirà il pericolo derivato dal fatto che le rivelazioni della donna potrebbero addirittura mettere a repentaglio l’esistenza stessa della Chiesa cattolica.  Stigmate – nonostante tutti i distinguo legati alla sua trama fantasiosa, ma con qualche fondamento di verità – è una pellicola estremamente interessante. Notevole soprattutto per il fatto che musica rock e immagini velocissime sono intimamente collegate nel raccontare una storia dai toni vagamente blasfemi in cui santità e peccato si scontrano ripetutamente. Anche questa è una pellicola nata da un’avvincente contaminazione di generi dove l’horror ha a che fare con la fantapolitica e in cui – proprio come direbbe San Tommaso d’Aquino – la santità riesce a essere spiegata attraverso il suo contrario. Quel peccato che sembra avviare il motore purificato di una nuova evoluzione non solo del genere umano, ma fortunatamente anche del cinema hollywoodiano quando esplora argomenti difficili e ancora pieni di dogmi spesso insormontabili.

Il mistero della casa sulla collina (The house on the haunted hill) {Sostituisci con chiocciola}

Geoffrey Rush – Famke Janssen Sceneggiatura Dick Beebe e Robb White Regia William Malone Anno di produzione USA 2000 Distribuzione Buena Vista Durata 91’

Remake dell’omonimo film diretto da William Castle nel 1958,  prodotto da Robert Zemeckis e da Joel Silver (Matrix, Arma Letale) Il mistero della casa sulla collina è un aggiornamento splatter e esagerato della storia originale. Nonostante una maggiore cura per i dettagli e molte trovate decisamente carine, questa pellicola glamour piena di begli attori e attrici stupende fallisce nel replicare le cupe atmosfere dell’originale. L’avventura del miliardario che dà una festa per la moglie in un manicomio che sessanta anni prima era stato teatro di una strage pur presentando notevoli spunti, prende subito la piega della pura scommessa. Paradossalmente l’offerta di un milione di dollari a chi rimarrà nella casa per tutta la notte, replicando le atmosfere da videogame uccide subito tutti i possibili risvolti noir della storia, dando vita a una pellicola davvero eccessiva. Dominata da effetti speciali visivi e sonori terrorizzanti, il film – destinato evidentemente dalla produzione a un pubblico di adolescenti di bocca buona - segue un cliché banale rischiarato solo dal fascino perverso dei protagonisti come Geoffrey Rush (Shine) e Famke Janssen (007 Goldeneye). Il resto è noia. Pur non crollando nel film per bambini come il terribile Haunting di Jan De Bont, Il mistero della casa sulla collina si rivela rapidamente per quel che è. Una pellicola tiranneggiata da un gusto smodato per l’immagine incapace di creare la tensione senza dovere sforzarsi a essere anche divertente, originale e – seppure nel suo genere – credibile. 

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