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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Aprile 2000


FILM Aprile-Maggio 2000

 Segnalati da Nautilus

Vai alla prima parte

L’orecchio dei Whit di William Blake Herron

Selezionato per la scorsa edizione della settimana della critica del Festival di Venezia, esce finalmente L’orecchio dei Whit titolo che con le sue reminescenze dal sapore vagamente letterario ben rispecchia l’approfondita struttura narrativa forgiata sullo stile di autori come John Steinbeck. Intitolato in originale con il più cinematografico A Texas Funeral (Un funerale texano) questo sorprendente film diretto dall’esordiente William Blake Herron ha la forza espressiva di una saga familiare e la leggerezza di una commedia vecchio stile. Un’opera cinematografica impreziosita da divertenti avvenimenti surreali, enfatizzati da una serie di flashback irresistibili a metà strada tra il grottesco e il malinconico. Una serie di eventi scatenati dalla morte del vecchio nonno Sparta e dal suo “irresistibile” orecchio inteso come parte anatomica. Un particolare fisico irresistibile agli occhi di qualsiasi donna e capace di scatenare incontenibili desideri lussuoriosi. E’ per questo che la nonna stacca con un coltello l’orecchio al morto, vista senza accorgersene dal nipotino. Ed è proprio il piccolo Sparta il vero protagonista e testimone di questa storia in cui nulla è come sembra e in cui tutti i personaggi hanno qualcosa di intimo da celare agli altri membri della famiglia. Solo lui, giovanissimo e innocente non ha niente da nascondere a nessuno. Ed è anche per questo motivo che i fantasmi di nonno Sparta e dei suoi antenati in linea diretta si presentano al nipote per raccontargli la storia di una famiglia texana fuori dal comune. Così questo elemento surreale fa la differenza con il realismo letterario e con il cinema in bianco e nero cui sono innegabili i vari riferimenti presenti ne L’orecchio dei Whit. Una sensibilità nuova che porta ad esiti imprevedibili, simili, però, a quelli di altre pellicole di ambientazione americana come La casa degli spiriti e Come l’acqua per il cioccolato. In più la passione di famiglia per l’allevamento di cammelli i cui primi esemplari erano stati rubati ai nordisti durante la guerra di secessione, dà a questo film un tono impensabile che evidenzia in pieno lo stretto legame tra la famiglia Whit, la terra e gli amati cammelli. E come in tutte le saghe il gioco delle maschere tipico degli spesso inevitabili grandi e piccoli scontri familiari è dosato in maniera egregia e molto composta. Senza esagerazioni, con una grande sensibilità e un’intelligenza stilistica nuova, tutti i personaggi rivelano le proprie ansie, senza mai scadere nel dramma, bensì accompagnando le parole con una grande serenità per trovare la comprensione nel prossimo. Un film semplice ed originale che ribadisce la grande importanza e la forza espressiva del cinema indipendente americano degli ultimi anni.

Magnolia di Paul Thomas Anderson

Nove vite di persone distanti tra loro che abitano nella stessa città, nove storie quasi diverse unite apparentemente dal filo rosso del caso, un legame effimero, ma palpabile che il regista e autore Paul Thomas Anderson ci pone dinanzi agli occhi con una notevole intelligenza narrativa, non coadiuvata, ahimé, da una sceneggiatura adeguata agli intenti. Il problema è, infatti, che nonostante seguiamo il dipanarsi di queste esistenze per tre ore e dieci di durata della pellicola, non ne capiamo affatto le motivazioni. I personaggi rimangono in superficie e l’introspezione è solo accennata. Qual è il senso di tutta la storia? In che cosa risultano esemplari le vite di un conduttore televisivo, malato di tumore con il vizio della pedofilia, di una moglie fedifraga innamorata tardivamente di un marito condannato a morte dal cancro, di un bambino prodigio, di un ex bambino prodigio, di un poliziotto noioso, di un infermiere sensibile, di un santone del sesso, di una ragazza problematica? In realtà il dato strano di Magnolia è che grazie ad attori come Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, Tom Cruise e Jason Robards i personaggi sono più interessanti delle vite che raccontano, intrecciate spesso in maniera forzosa al punto di fare sembrare questo film come un sequel ideale, ma non all’altezza di America oggi di Altman. E se nel film di Anderson è una pioggia di rane (uno strano fenomeno atmosferico, davvero…) a tirare i fili della trama, nel fortunato predecessore era un terremoto a riunire i protagonisti. Somiglianze eccessive per essere casuali, per una pellicola che se funziona lo fa soprattutto in virtù di un intrigante intreccio di storie diverse, aiutato da una regia certamente più interessante della rappresentazione dell’esistenza stessa dei singoli. Un film di difficile interpretazione i cui personaggi sono riuniti dalla ricerca di amore e dalla voglia di perdonare. Sentimenti  nobili è vero, ma piuttosto abusati dal punto di vista cinematografico e narrativo.

Ragazze interrotte di James Mangold

Il Vietnam, l’assassinio di Martin Luther King, le tensioni razziali sono lo sfondo su cui muove Ragazze interrotte. Un background storico e culturale di grandi fermenti e di idee nuove che nella vita delle giovani donne protagoniste di questa storia tanto dura e accurata, rimbomba come un assordante silenzio. Ragazze raggomitolate nel proprio io e accoccolate più o meno comodamente nelle oscurità del proprio male oscuro, forzosamente insensibili a tutto quello che le circonda. Tra loro Susanna Keysen, figlia di una ricca famiglia borghese, obbligata dopo un tentativo di suicidio a trascorrere qualche mese ‘di riposo’ in una struttura manicomiale. Il difficile racconto di quel periodo durato anni è stato affidato al regista James Mangold e alle due interpreti Winona Ryder e Angelina Jolie nei panni di Lisa, una ragazza apparentemente forte, diventata la dominatrice del gruppo. La Ryder, invece, in un’interpretazione più matura e coinvolgente del solito, ci mostra il faticoso cammino di riabilitazione seguito con dolore e sacrificio per lungo tempo. Più che un altro film sulla malattia, il grande pregio di Ragazze interrotte è quello di essere essenzialmente una riflessione commossa e acuta sull’anima femminile e sulla libertà che può derivare dall’essere in grado di portare avanti le proprie scelte. Carismatica la presenza nel cast anche di Whoopi Goldberg e Vanessa Redgrave perfettamente calate in una pellicola coinvolgente e  davvero notevole.

L’imperatore e l’assassino di Chen Kaige

Mentre si assiste allo straordinario L’imperatore e l’assassino diretto dal regista Chen Kaige non si può fare a meno di tentare di scacciare la curiosa idea di stare vedendo la trasposizione di una tragedia shakesperiana nella Cina di più di duemila anni fa. Come in Riccardo III o Giulio Cesare, infatti, la passione, l’onore, la lealtà, l’intrigo, il pentimento, la rassegnazione e la ragione di stato si intrecciano dando vita ad un’ imprevedibile trama caleidoscopica sviluppata in due ore e quaranta di film, realizzata in oltre tre anni di lavorazione. Invece – e questo risulta ancor più sorprendente – la storia del Re di Quin, colui che volle unificare i sette regni della Cina per fregiarsi del titolo di imperatore è autentica e molto fedele ai fatti. Mentre in Europa, Roma era impegnata nella sua guerra contro Cartagine, in Cina un uomo solo contro tutti, volle riunire sotto un unico dominio i diversi popoli in lotta tra loro da quasi sei secoli. Considerata l’immensità del suo regno sembra abbastanza ovvio che agli occhi dei protagonisti di questa storia, l’unificazione della Cina coincida con l’idea della conquista del mondo. L’imperatore e l’assassino non è solo un film epico sulle battaglie di un Re, bensì anche e soprattutto la storia di un uomo, della sua visione della storia e del tentativo di cambiarla con l’intento nobile, ma anche un po’ ingenuo di donare una pace duratura al suo popolo. Un sogno di serenità e di buon governo che cambierà sul piano psicologico il sovrano, costretto dagli eventi a perdere una dopo l’altra tutte le persone a lui care. Ed è questo l’elemento davvero rilevante della storia de L’imperatore e l’assassino. Il kolossal sontuoso e spettacolare quasi come i film di Akira Kurosawa, è in realtà un profondo dramma psicologico in cui un uomo che ha deciso di cambiare il mondo in cui ha sempre vissuto deve sacrificare le cose e le persone più care pur di portare a compimento il suo sogno. La guerra trasformerà l’imperatore in un assassino (da qui anche la straordinaria ambiguità del titolo) e la perdita dell’innocenza coinciderà anche con la fine della sua storia di amore per la Signora di Zhao. L’annichilazione morale e l’impoverimento spirituale del re passano anche per il suo incontro fatale con un sicario scelto dalla donna che amava per ucciderlo. Il confronto tra questi due uomini e i loro fardello personale di dolore è degno di una grandiosità tragica dalla natura archetipica e profondamente letteraria, capace di appassionare il pubblico nonostante alcune ingenuità narrative e tecniche tipiche del cinema orientale. Una pellicola sottile, profondamente attuale e capace di raccontare in maniera originale i moti dell’anima.

Musica da un’altra stanza di Charlie Peters

E’ un Jude Law molto più giovane di quanto lo abbiamo visto in eXistenZ e ne Il talento di Mr.Ripley il protagonista di questa commedia sull’amore e sull’ineluttabilità dei sentimenti. E Law è come al solito bravo a interpretare il ragazzo cresciuto a Londra che tornato dopo oltre vent’anni nella sua città natale in America scopre di essere stato piantato in asso dalla ragazza di cui era innamorato. Sapendo di non doversi arrendere, finisce per caso a consegnare una torta a casa di un’altra ragazza che aveva aiutato a nascere quando aveva solo cinque anni. Di fronte alla neonata tutta coperta dalla placenta aveva promesso che un giorno sarebbe tornato per sposarla, così il destino sembra portarlo verso il compimento di quella promessa. Nonostante la prevedibilità e la smielatezza di alcuni sentimenti, Musica da un’altra stanza è una pellicola pienamente godibile dove con poche idee e tanto, ma tanto umorismo il pubblico viene intrattenuto per quasi due ore. Un film in cui il ritmo è sempre mantenuto costante da battute dalla grande ironia e da Law che non disdegna mettersi in ridicolo pur di piacere. Ma non è solo il talento di Jude Law il vero protagonista di questo film: Musica da un’altra stanza risulta estremamente piacevole grazie anche alla freschezza dell’interpretazione di Jennifer Tilly e Gretchen Mol, e soprattutto di un’ottima Brenda Blethyn (Segreti e bugie) quasi irriconoscibile nel ruolo dell’anziana e romantica madre delle due. 

Le regole della casa del sidro di Lasse Hallstrom

“I neonati abbandonati non piangono mai. Sanno bene che è inutile e che nessuno risponderà ai loro richiami.” E’ così che si apre Le regole della casa del Sidro, drammone stile anni Cinquanta ambientato nel Maine durante la Seconda Guerra Mondiale. Una pellicola agrodolce che al di là dell’enfasi più o meno giustificata sollevata dalle sette candidature all’Oscar, è certamente meritevole di attenzione e delle tante lodi ricevute dal pubblico e dalla critica. Il film, infatti, è solo apparentemente la storia semplice e dall’andamento elittico di un ragazzo cresciuto in un orfanotrofio, che istruito nell’arte medica dal primario – direttore del piccolo istituto del Maine dove si trova - decide di costruirsi una nuova vita come bracciante agricolo. Ad una seconda e più approfondita lettura, Le regole della casa del Sidro è una riflessione originale e molto profonda sull’identità e sul senso di paternità inteso nella maniera più ampia possibile. Nonostante, infatti, il film rischi sempre di scivolare in facili e ruffiane situazioni da soap opera tra amori illeciti, sguardi supplichevoli di bambini desiderosi di farsi adottare, preghiere dette in ginocchio la sera prima di addormentarsi in camerate spoglie, ma pulite, il suo senso di grande umanità e la grande interpretazione di Michael Caine e Tobey Maguire, lo sollevano molto al di sopra della media del cinema sentimentale degli ultimi trenta anni. L’elemento psicologico e l’indagine su alcuni fragili meccanismi del cuore, rendono Le regole della casa del Sidro qualcosa di molto diverso dai film del passato. Il suo incedere lento, senza solennità, le brutture e le storture della vita vissute sulla loro pelle dai personaggi, i sorrisi tristi di bambini abbandonati dal mondo, rendono questo film diretto dal regista Lasse Hallstrom, già autore del fortunato Buon compleanno Mr. Grape un’opera diversa e molto dolorosa. L’identità e il senso di appartenenza sono i temi dominanti di un film in cui è il senso di mancanza il tratto che unisce tutti i personaggi. Il viaggio fisico di Homer (Nome omen, direbbe qualcuno…) è – come spesso capita – un itinerario spirituale che lo scoprirà a capire chi realmente è, tornando a un passato che lo porta necessariamente a compiere quel destino quasi ineluttabile, la cui via maestra era stata segnata da quel padre spirituale che gli aveva salvato la vita quando era piccolo. L’unico capace di interpretare il suo silenzio di neonato abbadonato come una richiesta di amore e di aiuto. Un film emozionante in cui il confronto tra il mondo esterno e la piccola comunità di bambini abbandonati in cerca di affetto è in realtà un raffinato e sottile gioco di ombre e riflessi.

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